Post-fotografia etnografica*

Post-fotografía etnográfica

Rosario PERRICONE

(Università degli Studi di Palermo)

rosario.perricone@gmail.com

ORCID: 0000-0002-4317-5834

SOMMARIO: È evidente come la nostra società tecnologica sia legata senza alcun dubbio alla diffusione delle immagini. Autori come Gottfried Boehm, John Mitchell, Hans Belting hanno indagato la natura dell'immagine ponendo le basi, negli anni Novanta, per l'idea di un pictorial turn, di una cultura totalmente dominata dalle immagini che è diventata adesso una possibilità tecnica reale su scala globale. Un nuovo statuto dell'immagine che si usa raccogliere sotto l'etichetta di iconic turner inserito nel più vasto campo visual culture studies.

L'uso del termine cultura accanto a quello di visuale è indicativo dell'ampiezza del campo d'indagine che visual culture studies si prefiggono di ricercare: essi non vogliono limitarsi alla constatazione della predominanza del visuale nella società contemporanea e a una valutazione della sua componente estetica, ma vogliono procedere verso una ricerca di tipo antropologico in cui la cultura visuale è analizzata come particolare stile di vita che esprime certi significati e valori non solo nell'arte e nell'alta cultura, ma anche nelle istituzioni e nel comportamento quotidiano. Proveremo ad applicare questo nuovo paradigma alle fotografie: anziché chiederci che cosa le immagini significano, proviamo a chiederci che cosa vogliono.

PAROLE CHIAVE: fotografie, selfie, rito, animismo

RESUMEN: Es evidente que nuestra sociedad tecnológica está indudablemente vinculada a la difusión de imágenes. Autores como Gottfried Boehm, John Mitchell, Hans Belting investigaron la naturaleza de la imagen sentando las bases, en la década de 1990, para «la idea de un pictorial turn, de una cultura totalmente dominada por imágenes que ahora se ha convertido en una posibilidad técnica real a escala mundial». Un nuevo estado de imagen que se suele recopilar bajo la etiqueta de iconic turner insertada en el campo más amplio de las culturas visuales.

El uso del término cultura junto con el de visual es indicativo de la amplitud del campo de investigación que los visual culture pretenden buscar: no quieren limitarse a determinar el predominio de lo visual en la sociedad contemporánea y a una evaluación de su componente estético, pero quieren avanzar hacia una investigación antropológica en la que la cultura visual se analice como un «estilo de vida particular que expresa ciertos significados y valores no solo en el arte y la alta cultura, sino también en las instituciones y el comportamiento cotidiano». Intentaremos aplicar este nuevo paradigma a las fotografías: en lugar de preguntarnos qué significan las imágenes, intentemos preguntarnos qué quieren.

PALABRAS-CLAVE: fotografías, selfie, rito, animismo

0. VISUAL CULTURE

È evidente come la nostra società tecnologica sia legata senza alcun dubbio alla diffusione delle immagini. Una presenza massiva che, naturalmente ci pone di fronte alla sua gestione politica. La presenza della tecnologia digitale, permette alle immagini una velocità di circolazione senza precedenti. Eventi di cronaca, purtroppo, ci hanno dimostrato come grazie alla rete le immagini abbiano raggiunto una forza impensabile in passato. Oggi uccidiamo e veniamo uccisi dalle immagini, si possono fare diversi esempi: da Charlie Hebdo alla fotografia del bambino affogato sulle rive delle coste turche, per citare solo due.

Spetta alla filosofia, all’antropologia, alla teoria dell’arte il compito di decifrare la loro condizione così instabile. Autori come Gottfried Boehm (2009)1, John Mitchell (2008), Hans Belting (2001) hanno indagato la natura dell’immagine ponendo le basi, negli anni Novanta, per «l’idea di un pictorial turn, di una cultura totalmente dominata dalle immagini che è diventata adesso una possibilità tecnica reale su scala globale» (Mitchell, 2008: 22). Un nuovo statuto dell’immagine che si usa raccogliere sotto l’etichetta di iconic turner inserito nel più vasto campo visual culture studies. Nel 1996 la redazione di «October», una delle più importanti riviste contemporanee di studi visuali, proponeva ad alcuni autorevoli studiosi di storia dell’arte e delle arti visive il famoso Visual culture questionnaire (cfr. AA.VV., 1996: 25-70) che può essere considerato il punto di partenza di questo nuovo campo di studi2. L’uso del termine cultura accanto a quello di visuale è indicativo dell’ampiezza del campo d’indagine che visual culture studies si prefiggono di ricercare: essi non vogliono limitarsi alla constatazione della predominanza del visuale nella società contemporanea e a una valutazione della sua componente estetica, ma vogliono procedere verso una ricerca di tipo antropologico in cui la cultura visuale è analizzata come «particolare stile di vita che esprime certi significati e valori non solo nell’arte e nell’alta cultura, ma anche nelle istituzioni e nel comportamento quotidiano» (Williams 1979). Da ciò deriva l’istanza epistemologica per cui la visual culture considera la visualità sia come elemento centrale nei processi di costruzione del mondo, sia come prassi sociale in grado di sollevare controversie e problematiche; la visual culture, analizzando le forme di visualizzazione e l’uso delle immagini da parte degli individui nella loro dimensione quotidiana per dare senso al mondo, dovrebbe quindi essere considerata, a tutti gli effetti, uno specifico campo di studio poiché «mentre i vari media sono stati di solito studiati separatamente, c’è bisogno ora di interpretare la globalizzazione postmoderna dell’immagine come vita quotidiana. [...] La Cultura Visuale non riflette, quindi, il mondo esterno, e nemmeno si adegua semplicemente a concetti creati altrove; essa è uno strumento per interpretare il mondo visivamente» (Mirzoeff, 2002: 29, 78). Ogni ricerca sulla Visual Culture dovrebbe partire dal presupposto che gli studi visuali non possono essere racchiusi all’interno di un inquadramento metodologico già definito, dal momento che il loro apporto conoscitivo alla realtà discende dalla commistione ponderata di differenti strumenti di metodo e contributi analitici. Proveremo ad applicare questo nuovo paradigma alle fotografie pensandole non tanto come oggetti inerti al nostro sguardo, «ma come soggetti animati, dotati di personalità, bisogni e soprattutto desideri. Anziché chiederci che cosa le immagini significano, proviamo a chiederci che cosa vogliono» (Mitchell, 2009: 99-100).

Questo approccio ha una lunga tradizione alle spalle che risale al secondo Concilio di Nicea (787). In questo contesto l’immagine non è cosa, oggetto, quanto piuttosto evento in atto, epifania di un’assenza che coinvolge e travolge l’astante. L’immagine è dunque parte di un complesso sinestetico che implica un atto performativo3. Questo approccio «culturologico» alle immagini è presente nella visione di Hans Belting, storico dell’arte e Kunstwissenschaftler, uno dei protagonisti della «risposta tedesca» alla visual culture di area anglosassone, grazie all’elaborazione di una Bild-Anthropologie, in cui si tenta di ricondurre la domanda «perché le immagini?» a una base antropologica. Per comprendere appieno il pensiero di Belting non bisogna trascurare la sua formazione come medievista dalla quale la riflessione sull’immagine prende le mosse. Belting fonda una metafisica moderna del sensibile basata sulla continuità dell’immagine: «una storia delle immagini in continua evoluzione». Propone una nuova iconologia che mira «a collegare passato e presente nella vita delle immagini e che quindi non sia limitata all’arte (come lo era l’iconologia di Panofsky) [...] Una iconologia critica è oggi un bisogno urgente, dal momento che la nostra società è esposta al potere dei mass media in un modo che non ha precedenti [...] La semiologia, per fare un esempio, non permette alle immagini di esistere al di là del territorio controllabile dei segni, dei segnali e della comunicazione». Belting propone un approccio di tipo antropologico nel quale considera le rappresentazioni interne ed esterne, o le immagini mentali e materiali, come due facce della stessa medaglia. «L’ambivalenza delle immagini endogene e di quelle esogene, che interagiscono su molti differenti livelli, è presente nei diversi modi in cui gli uomini usano le immagini». Per Belting in sintesi le immagini «non esistono di per sé, ma accadono; hanno luogo sia che si tratti di immagini in movimento (nel cui caso è ovvio) sia che invece si tratti di immagini statiche. Esse accadono grazie alla trasmissione e alla percezione» (Belting, 2009: 75-76).

Anche David Freedberg ha posto al centro della sua riflessione il potere delle immagini affrontando lo spinoso tema dell’emozione, della pulsione nella percezione e dell'importanza del ruolo del corpo nella percezione visiva. Emozionare, spaventare, eccitare: queste e molte altre le funzioni che le immagini hanno assolto nel corso della storia. Immagini che, proprio per queste particolarità, hanno a loro volta stimolato un peculiare tipo di reazioni da parte di chi le guarda. Da una parte si tratta infatti di ribaltare l’atteggiamento consueto per cui un’immagine viene letta, discussa e valutata prevalentemente o soltanto in ragione delle sue valenze estetiche, d’altra parte decade la tradizionale gerarchia tra opere d’arte «colte» e immagini «popolari». Quello che conta sono i significati che, nel corso dei secoli, l’immaginazione ha attribuito a certe rappresentazioni, che diventavano così capaci, a seconda dei casi, di fare miracoli o indurre alla meditazione mistica e/o politica (cfr. Freedberg, 2009). Le immagini ci colpiscono, arrivano alla nostra coscienza, ma la diffusione ne ha moltiplicato il numero rendendole inafferrabili e di conseguenza incontrollabili. Come è noto il punto di frattura della modernità è identificato con la riconfigurazione dell’esperienza sensibile che viene attuata, tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, soprattutto a partire dall’azione e dalla diffusione dei nuovi media dell’epoca (fotografia, fonografo, cinema ecc.). Le immagini così prodotte operano uno smembramento e una frammentazione della realtà sensibile che viene tradotta in frammenti di immagini. I suoi singoli aspetti vengono serializzati e resi percepibili e ripetibili all’infinito. Viene così reso manifesto il conflitto tra vita sensibile e l’interiorità dei soggetti.

Marc Augé ragiona sull’invasione delle immagini, affermando che con questa irruzione si instaura un nuovo regime di finzione che affligge la vita sociale penetrando al suo interno al punto di farci dubitare di essa, della sua realtà, del suo senso e delle categorie (l’identità, l’alterità) che la definiscono e costituiscono. La tradizione etnografica occidentale si è interessata alle immagini, a quelle degli altri: ai loro sogni, allucinazioni, ai corpi posseduti. Ha osservato e analizzato il modo in cui queste immagini acquistavano tutto il loro senso all’interno di sistemi simbolici condivisi, la maniera in cui esse si riproducevano e a volte si modificavano attraverso l’attività rituale. L’antropologia si è interessata all’immaginario individuale, alla sua negoziazione perpetua con le immagini collettive e anche alla fabbricazione delle immagini o piuttosto degli oggetti (chiamati a volte feticci) che si presentavano allo stesso tempo come produttori di immagini e di legame sociale. Gli antropologi, inoltre, hanno avuto l’occasione di osservare come lo scontro fra immagini accompagnasse lo scontro fra i popoli, le conquiste e le colonizzazioni, invadendo l’immaginario dei vinti con quello dei vincitori. Per Marc Augé non è solo l’immagine a essere messa in discussione dalla constatazione del cambiamento che oggi siamo invitati a definire. Sono le condizioni di circolazione fra l’immaginario individuale (ad esempio il sogno), l’immaginario collettivo (ad esempio il mito) e la finzione (letteraria o artistica, messa in immagine o no) che sono cambiate. Il mutarsi di queste condizioni ci permette di interrogarci sullo statuto attuale dell’immaginario. Si può affrontare la questione basandoci sulla «finzionalizzazione» sistematica di cui il mondo è oggetto, dove questa «messa in finzione» dipende da un rapporto di forze molto concreto, molto percettibile, i cui termini non sono facili da identificare. In sostanza tutti abbiamo la sensazione di essere colonizzati, ma senza sapere da chi. «Gli individui hanno sempre esitato a identificarsi soltanto con il corpo, sempre tentati al contrario di pensarlo come limite da superare o da difendere. Questa concezione del corpo come frontiera più o meno porosa non implica tuttavia necessariamente una concezione dualistica che opporrebbe il corpo allo spirito» (Augé, 1998: 31).

1. AGENCY

Il principio chiave di questo nuovo indirizzo è quello di agency4. Il concetto di agentività si è affermato negli studi antropologici alla fine degli anni ’70, come reazione all’incapacità dello strutturalismo di tener conto delle azioni degli individui. Anthony Giddens fu il primo a diffondere l’uso del termine agency; assieme a sociologi ed antropologi quali Pierre Bourdieu e Marshall Sahlins, Giddens «incentrò le proprie analisi sui modi in cui le azioni umane sono dialetticamente connesse alla struttura sociale in forma tale da rendere le due dimensioni reciprocamente costitutive» (Ahearn, 2001: 19)5. Da questo nuovo paradigma, secondo cui «gli esseri umani fanno» la società proprio come la società «fa loro», è nata una scuola di pensiero vasta e non ben definita, chiamata «teoria della pratica». Negli ultimi anni la nozione di agency è stata connessa al neo-animismo «un tratto comune a questi approcci è stato, d’altro canto, costituito dall’avere collegato la rivisitazione del concetto di animismo a un nuovo e forte interesse per i presupposti «ontologici» delle classificazioni e delle categorie indigene centrato in particolare sugli elementi di continuità e di discontinuità tra le «teorie della persona» e significati dell’«essere umano» documentabili nelle diverse società umane»6. L’altro concetto a cui la nozione di agency è stata connessa è quello del quanto al concetto di «prospettivismo amerindiano», elaborato da Eduardo Viveiros de Castro (2017) che considera il prospettivismo non un corollario etnoepistemologico dell’animismo, al contrario «egli lo usa come punto di partenza per un’operazione ancor più radicale: si tratta, questa volta, di riflettere sul mondo a partire da una metafisica radicalmente altra [...] si può interpretare l’antropologia come un’ontografia comparata o, se si preferisce, come una filosofia con dentro la gente. Si tratterà allora di assumere i sistemi concettuali indigeni come piste della filosofia, come esperienze di pensiero» (Consigliere, 2014b: 8), come ontologia dei nativi, in questo nuovo paradigma chiamato ontological turn7. Non è un caso che Eduardo Viveiros de Castro abbia scritto un saggio dal titolo La trasformazione degli oggetti in soggetti nelle ontologie amerindiane8 nel quale inserisce la nozione di agency all’interno dell’antropologia sociale delle popolazioni amerindiane e, sulla scia di Gell, riferendosi agli «artefatti», afferma che essi hanno «questa interessante ambigua ontologia: essi sono oggetti che necessariamente rimandano a un soggetto; in quanto azioni cristallizzate, sono la materializzazione di un’intenzionalità immateriale» (Viveiros de Castro, 2000: 50). Viveiros de Castro continua affermando che l’epistemologia occidentale è ‘costruzionista’, in quanto è «il punto di vista che crea l’oggetto» ed è quindi attraverso il «conoscere» che «oggettivizza», al contrario della cosmogonia amerindiana che invece è riconducibile a quel sistema di conoscenze riassumibile sotto la nozione di «sciamanesimo» e nella quale è «il punto di vista che crea il soggetto» e dove «conoscere è soggettivare». Questo approccio «teleologico indigeno» di Viveiros de Castro non descrive però il tipo di cognizione implicata nella «forma di traduzione» che Jakobson chiama trasmutazione9. Carlo Severi (2014), invece, attraverso l’analisi etnografica di tre case studies amazzonici, ricava un’idea più ampia e più precisa di alcuni processi di traduzione culturale raramente studiati, ed elabora un nuovo modo per definire il concetto di «ontologia culturale». Negli ultimi venti anni, dice Severi10, la questione del rapporto tra iconografie, strutture narrative, canti rituali e, in generale, la pragmatica della trasmissione della conoscenza è stata dibattuta intensamente e produttivamente. Un gruppo di ricercatori ha dimostrato che i miti non possono essere usati come «didascalie» di iconografie, né le immagini o gli artefatti possono essere intesi come illustrazioni di miti (cfr. Vidal, 2000). Esiste nelle pratiche iconografiche amazzoniche, proprio come in altri tipi di iconografie amerindiane, uno stretto collegamento tra miti, canti rituali, disegni, scritte illustrate o decorazioni corporee a loro collegate (cfr. Severi, 2012). Di conseguenza le iconografie non si vedono più come decorazioni ridondanti, ma sono intese come «variazioni» della stessa «immaginazione concettuale» che genera le narrazioni mitiche (cfr. Barcelos Neto, 2014) per questa ragione la sinestesia è diffusa ovunque in Amazzonia11.

Vista la «tribalizzazione» della società contemporanea non deve meravigliare allora se William Mitchell, nei suoi scritti di visual studies, affermi che il cliché dominante negli studi sulla cultura visuale contemporanea sia «l’idea che le immagini abbiano una specie di proprio potere psicologico o sociale [...] l’idea della personificazione delle immagini, (o al limite del loro animismo) è altrettanto viva nel mondo moderno quanto lo era nelle società tradizionali». Per questo motivo Mitchell ha spostato l’attenzione «da ciò che le immagini fanno a ciò che esse vogliono, dal potere al desiderio, dal modello di un potere dominante, cui bisogna opporsi, a un modello del subalterno che bisogna interrogare o (meglio) invitare a parlare. Se il potere delle immagini è come il potere del debole, questo potrebbe essere il motivo per cui il loro desiderio è proporzionalmente forte: per compensare la loro reale impotenza [...] il modello subalterno applicato alle immagini apre alla dialettica tra potere e desiderio che viene messa in atto nella nostra relazione con le immagini. Come sono stati riformulati gli atteggiamenti tradizionali nei confronti delle immagini —idolatria, feticismo e totemismo— nelle società moderne?» (Mitchell, 2009: 103, 110)12.

2. RITO-IMMAGINE-PERSONA

A queste domanda risponde, a mio avviso, Carlo Severi (2017) con il suo ultimo libro L’objet-personne. Une anthropologie de la croyance visuelle. Per capire la natura di questo pensiero singolare il primo passo, dice Severi, è probabilmente quello di pensare agli effetti della narrazione su spazio e tempo. L’oggetto diventa, secondo un certo tempo e all’interno di un certo spazio, una persona. In particolare, questo tipo di presenza dell’oggetto è al centro dell’azione rituale. Possiamo persino affermare che costituisce lo spazio del pensiero. Il senso comune (e molte teorie antropologiche) concepiscono, quasi istintivamente, questo tipo di presenza di oggetti come risultato di una sostituzione diretta: a tale oggetto corrisponde tale persona e viceversa. In questa prospettiva, per esempio, all’interno di un rito è l’oggetto che assume le sue funzioni e mantiene una relazione di equivalenza assoluta. Nell’universo della credenza legata all’azione rituale, si pensa che l’oggetto agisca come un’ombra o come l’immagine speculare dell’essere umano che sostituisce. Il saggio di Severi mostra, al contrario, che l’oggetto in realtà agisce in un modo molto diverso. Bisogna tenere conto della sua complessità specifica, l’oggetto animato è in realtà molto più vicino a un cristallo che a uno specchio. È un’immagine multipla, plurale, composta da tratti parziali e incompiuti, provenienti da diverse identità e a volte antagonistica. Se decifriamo questa complessità del manufatto animato, lo spazio del pensiero che l’azione rituale presuppone —e il legame di credenza che è stabilito tra oggetti e persone— appaiono in una luce diversa. Carlo Severi tenta un’analisi di questo tipo di complessità, che riguarda la presenza tanto dell’immagine quanto del narratore, cercando di identificare lo spazio del pensiero antropomorfico che lo genera. L’esistenza di un pensiero antropomorfico non ha nulla di sorprendente, le tracce dell’esercizio di questo pensiero sono ovunque osservabili nella nostra esperienza quotidiana. Tuttavia, in tutti questi casi, questo atteggiamento è anche fragile, temporaneo. Esistono altri luoghi, altri tempi o situazioni nei quali il pensiero antropomorfico subisce una profonda mutazione, dove tutto si intensifica. Pensiamo naturalmente all’universo religioso, anche all’immagine di un familiare morto che può diventare «vivente» e interlocutore privilegiato della narrazione quotidiana. Carlo Severi ci ricorda che una delle poste in gioco è quella di mettere in relazione l’analisi di queste situazioni quotidiane con la teoria del rituale che ha elaborato alcuni anni fa (Severi y Houseman, 1994). Il rituale è considerato come il luogo in cui sorgono identità complesse, plurali e contraddittorie, capaci di generare una dimensione ontologica parallela. Il rito non è visto soltanto come ambito dell’azione e dell’interazione tra gli uomini, distinto e separato da altre forme di azione umana, ma un modo di approcciare il mondo. «La pratica del rito non è diversa da quella della conversazione (almeno per come la vedevano gli antichi e i medievali). Entrambe necessitano di coordinamento, vicinanza, fiducia, limitazione della volontà. [...] Rito e conversazione necessitano entrambi di apertura verso l’altro, entrambi affermano che la verità non sta nelle mani (o nel cuore) di nessuno, ma che deve essere prodotta insieme mediante uno sforzo comune» (Puett y Seligman y Weller, 2011: 11). Si concettualizza il rito come modalità specifica di acconciarsi alla natura fratturata e spesso ambivalente del nostro mondo. La corrente principale, in antropologia come negli studi sulla religione, ha cercato di interpretare il significato dei riti e di indicare i sistemi culturali di tipo discorsivo codificati ed evocati dai loro simboli. «Questo approccio rischia di rimanere prigioniero della concezione post-protestante o post-illuministica, secondo la quale il rito è il referente di un significato la cui autentica essenza sta al di là del rito stesso» (Ivi.: 14). Teoria sintetizzata nella celebre concezione agostiniana dell’Eucarestia come «segno visibile di una grazia invisibile». Questa concezione è oggi la principale chiave per interpretare i riti: la «cosa in sé» sta sempre oltre il rito, così che l’atto rituale non è che lo strumento di qualcos’altro. Il modo migliore per avvicinarsi e comprendere il rito è attraverso ciò che esso fa, e non attraverso ciò che esso sta a significare. È indubbio che le persone saturino i riti di significati e che possano, in molti casi, proporci spiegazioni assai elaborate. E tuttavia, un rito può avere luogo senza che sussista alcun interesse per i significati, e in molti casi gli informatori si rifiutano di indicarne il senso, infatti dicono: «Si è fatto sempre così». La maggior parte dei significati viene imposta al rito dall’esterno. Dal nostro punto di vista, il rito riguarda più il fare che il dire. Ne deriva che il rito offre un orientamento all’azione e dunque una cornice per l’azione che è rilevante per la comprensione delle attività umane al di là di ciò che si svolge durante il rito stesso. Sono diversi gli autori che abbracciano questa diversa concezione: la Douglas (1993) di Purezza e pericolo; Tambiah (2002) di Rituali e cultura; Rappaport (2004) di Rito e religione nella costruzione dell’umanità e altri ancora; secondo tutti questi autori è la categorizzazione che rende l’azione rituale, non l’azione stessa: il rito viene considerato come possibile orientamento all’azione, invece che come un insieme di significati. Il rito è, soprattutto, l’affermazione della differenza e sono i nostri pregiudizi, la nostra capacità di vedere l’ubiquità delle differenze nella vita —differenze che vengono continuamente mediate dai riti— che ci portano a ridurre il rito a una rappresentazione del sacro. Il rito crea un universo soggiuntivo fatto di «come se» o «potrebbe essere», da cui emerge il mondo sociale condiviso. La formalità, la reiterazione e i vincoli tipici del rito sono elementi necessari di tale creazione condivisa. Il rito, inoltre, garantisce ampio spazio alla realizzazione e al perfezionamento degli esseri umani, troppo spesso mortificati nella quotidianità. Jonathan Smith parla di natura «immaginaria» del rito, infatti i riti e il comportamento rituale non sono eventi; sono una modalità di negoziare la nostra esistenza nel mondo (cfr. Smith 1982: 53-65). Il rito asseconda la profonda necessità umana di avere dei confini con la loro natura di entità negoziabili. «Gli uomini si costituiscono grazie ai loro confini —si costituiscono cioè su un piano di cui non hanno pieno controllo, un piano che è sempre aperto all’altro, allo straniero, a ciò che è diverso e sconosciuto e che non può essere raggiunto dal potere del centro. È per questo che i confini sono pericolosi. Invece di tentare di eliminare i confini o di renderli impenetrabili, il rito li rinegozia continuamente, accettandone l’instabilità e la labilità. Solo prestando la dovuta attenzione al funzionamento del rito —anche quando i suoi elementi e ritmi formali subordinano a sé i contenuti— possiamo negoziare le pretese emergenti del mondo contemporaneo» (Puett y Seligman y Weller, 2011: 23).

Su scala etnologica, secondo Marc Augé, sarebbe impossibile dimostrare che ogni attività rituale ha lo scopo di produrre identità attraverso il riconoscimento di alterità. I rituali della nascita, i rituali di iniziazione, i rituali funerari, mettono tutti in scena «l’altro» (un antenato, un dio) con il quale bisogna stabilire o ristabilire una relazione adeguata per assicurare lo statuto o l’esistenza dell’individuo o del gruppo. Non è necessario negare il valore performativo del rito per riconoscere il suo valore identificante. Del resto, secondo Augé non si dovrebbe insistere troppo sull’importanza dell’attività rituale nell’elaborazione di identità relative. Il legame sociale creato dal rito deve essere pensabile (simbolizzato) e gestibile (istituito); in questo senso il rito è mediatore, creatore di mediazioni simboliche e istituzionali che permettono agli attori sociali di identificarsi e di distinguersene, insomma di stabilire mutualmente dei legami di senso (di senso sociale). Le nuove tecniche della comunicazione e dell’immagine rendono il rapporto con l’altro sempre più astratto e l’aver sostituito i media alle mediazioni contiene in sé la possibilità di violenza, produce un blocco, un deficit rituale (cfr. Augé, 1998: 15-30).

Il rituale è sentito, in particolare, come il luogo in cui sorgono identità complesse, plurali e contraddittorie, capaci di generare una dimensione ontologica parallela a ciò che domina, altre volte, la vita sociale. Ma il contesto rituale non è il solo luogo in cui può essere espressa l’agentività dell’oggetto/immagine. Esistono altre situazioni dove questi giochi di sostituzione e identificazione parziale tra gli umani e gli oggetti possono stabilirsi. Carlo Severi ha proposto di definire questi contesti spuri come situazioni «quasi rituali» che, senza corrispondere alle consuete condizioni di esercizio dell’azione rituale, tuttavia permettono di descrivere tutto attraverso la teoria relazionale. Da queste analisi deriva che l’agentività di un artefatto come la fotografia dipende, oltre che dal contesto relazionale in cui opera, anche dalla sua specifica forma di vita. Per fare questo inverte la prospettiva dei primitivisti e invece di vedere opere d’arte ovunque, a parte l’Occidente, analizza alcune opere d’arte occidentali, secondo la logica primitivista, come oggetti-persone. Questo esperimento apre una nuova prospettiva per l’antropologia dell’arte che allarga ulteriormente la teoria formulata da Alfred Gell (1998) in Art and Agency. An Anthropological Theory13 e ci permette di analizzare le fotografie in una nuova relazione che tenga conto, insieme al legame tra elaborazione logico-concettuale, anche della struttura sociale, della ragione funzionale, della realtà degli attori, della loro capacità di elaborazione simbolica e della loro memoria rituale.

3. POST-FOTOGRAFIA

Ci ritroviamo un nuovo ordine visuale, che appare marcato da alcuni fattori come l’immaterialità e la trasmissibilità delle immagini la loro moltiplicazione e disponibilità il loro apporto decisivo nel rendere enciclopedici il sapere e la comunicazione. Oggi si assiste alla formazione sempre più insistente di stereotipi visivi. La continua ripetizione di questi moduli, usati in situazioni simili, fa sì che diventi sempre più facile interpretarli, tanto da poterli ormai considerare elementi di un linguaggio comune: un linguaggio figurativo da indagare nel contesto dell’antropologia della comunicazione visuale. Il visuale riguarda così le diverse forme riproducibili del «vedere» vissute nell’hic et nunc della vita quotidiana. All’interno di quest’ambito della cultura contemporanea si concentrano il potere e il conflitto, la tradizione e il mutamento, la sperimentazione e l’assuefazione, il globale e il locale, l’omologato e il sincretico. Il visuale si riferisce ai molti linguaggi che esso veicola (montaggio, inquadratura, commento, intreccio, primopiano, colori ecc.) e ai diversi generi che possono utilizzare diversi linguaggi o inventarne di nuovi. Il sostantivo «comunicazione» attesta e rafforza il carattere pervasivo dell’antropologia in genere e a maggior ragione di quella visuale (cfr. Canevacci 2001). La comunicazione figurativa fotografica si riferisce sempre e soltanto a una realtà specifica che può anche essere radicalmente trasformata ma che comunque esiste all’origine della fotografia. È possibile capire ciò che è raffigurato perché la rappresentazione fotografica impiega alcune fondamentali convenzioni che derivano dalla nostra esperienza di osservatori della realtà. Tali convenzioni, tendono a stabilire relazioni tra i fenomeni abituali della visione e le reazioni che proviamo davanti alla fotografia. Esiste cioè «una realtà sociale epistemicamente oggettiva che è in parte costituita da un insieme di attitudini ontologicamente soggettive» (Searle 2000: 119). Un certo tipo di fenomeno è tale solo se noi pensiamo che esso sia qualcosa. Ma pensare che esso sia qualcosa è tuttavia una condizione necessaria ma non sufficiente. Ci deve essere qualcosa di più del semplice atteggiamento. In genere le scienze sociali hanno a che fare con fenomeni che sono relativi agli osservatori. Fino a qualche tempo addietro per far circolare un’immagine era necessario che un fotografo scattasse una fotografia e che un editore la mettesse in commercio. Oggi, invece, basta un click e si raggiungono potenzialmente miliardi di persone. La strada tecnologica per la postfotografia è spianata.

Pensatori contemporanei tra i quali Marc Augé, Gilles Lipovetsky, Nicole Aubert definiscono la nostra epoca come ipermoderna. Una società caratterizzata dall’eccesso e da un nuovo legame spazio/tempo, scaturito da internet e dai mezzi di comunicazione globale. Questi contatti con il mondo ci offrono una conoscenza completa di ciò che accade sul nostro pianeta: siamo parte integrante della storia, inermi all’interno di un presente in continuo divenire. La manipolazione metalessica dello spazio/tempo e delle sue relazioni cronologiche, la costruzione di narrazioni competitive tra locale e globale, che secondo le retoriche dominanti sarebbero produttrici di inequivocabile località, definita nei suoi aspetti relazionali e contestuali, sono alla base del sistema di comunicazione globale che, esattamente come nel colonialismo, diviene un campo di contestazione culturale e di costruzione degli etnorami del vicinato14. La località è un prodotto storico e «le storie attraverso cui le località emergono sono alla fine soggette alle dinamiche del globale» (Appadurai, 2001: 35), che contribuiscono alla decostruzione, ormai in atto da tempo, della dicotomia fra autenticità e artificialità, partendo dal presupposto che «bisogna abbandonare l’idea che il locale sia autonomo, che abbia un’integrità sua propria, e dire piuttosto invece che esso ha significato come arena in cui si riuniscono influenze di vario genere» (Hannerz, 2001: 36). Un incontro di tempi che pervade l’immaginazione della cultura occidentale e ne costituisce la narrazione del contemporaneo attraverso una’etnografia delle immagini.

La seconda rivoluzione digitale, infatti, ha portato con sé il discredito della memoria. La macchina fotografica si appella alla memoria biologica, appannaggio della memoria computerizzata. La cultura digitale trasforma l’essere umano sulla base della memoria e delle relazioni che ha con essa. Questo ragionamento rimane tale per tutte le immagini dormienti, sia quelle rinvenute al mercato delle pulci, in qualsiasi archivio o sentiero della rete. Infatti, quando si bazzicano i «robbivecchi» e i mercatini antiquari ci s’imbatte spesso in singole immagini fotografiche che hanno perso quella che gli archivisti chiamano «informazione di corredo», cioè nomi e date scritte sul retro e soprattutto informazioni orali fornite dai discendenti delle persone ritratte. In casi simili le foto tornano a essere quello che, ontologicamente sono e che «la popolare “superstitio”» ha fin dall’inizio detto che esse fossero, puri idola senza nessuna identità. L’idea di riportare in vita un’immagine dormiente ci porta al tema delle molteplici reincarnazioni delle stesse. Questa attività venne già citata da Walter Benjamin (2000) ne I «passages» di Parigi: gli artisti e gli storici non sono altro che collezionisti di scarti, o rigattieri e raccoglitori di rifiuti. Lo storico raccoglie le tracce dimenticate per ricomporre i frammenti di un racconto. Alcune immagini, destinate a scomparire, si salvano godendo di una vita più lunga. Si tratta della redenzione e resurrezione delle immagini, della loro vita e del loro metabolismo. «Alla forma del nuovo mezzo di produzione, che, all’inizio, è ancora dominata da quella del vecchio (Marx), corrispondono, nella coscienza collettiva, immagini in cui il nuovo si compenetra col vecchio. Si tratta di immagini ideali, in cui la collettività cerca di eliminare o di trasfigurare l’imperfezione del prodotto sociale, come pure i difetti del sistema produttivo sociale. Emerge insieme, in queste immagini, l’energica tendenza a distanziarsi dall’invecchiato —e cioè dal passato più recente. Queste tendenze rimandano la fantasia, che ha tratto impulso dal nuovo, al passato antichissimo. Nel sogno in cui, a ogni epoca, appare in immagini la seguente, questa appare sposata a elementi della storia originaria, e cioè di una società senza classi. Le esperienze della quale, depositate nell’inconscio della collettività, producono, compenetrandosi col nuovo, l’utopia, che lascia le sue tracce in mille configurazioni della vita, dalle costruzioni durevoli alle mode effimere» (Benjamin, 2000: 6-7).

Le immagini sono una rappresentazione della realtà e costituiscono parte di essa. Sono tangibili e come tali hanno delle qualità materiali. Sono immagini-cosa. Alla fine del XIX secolo era radicata la credenza popolare che la retina di un morto conservasse l’ultima immagine percepita: l’optogramma. Molte furono le formulazioni a riguardo ma nessuna portò a risultati scientifici concreti15. Gli optogrammi sono affascinanti nella misura in cui esistono nella sottile frontiera fra l’esistenza e la non esistenza. Non stiamo parlando che dello statuto delle immagini effimere. «Nadar riporta la teoria di Balzac sulla dagherrotipia, che a sua volta deriva dalla teoria democritea degli idola16. Gautier e Nerval, se­condo Nadar, avrebbero aderito all’opinione di Balzac, “mais tout en causant spectres, l’un comme l’autre... furent des bons premiers à passer devant notre objectif” (Nadar, Quand j’ étais pho­tographe, p. 8)» (Benjamin, 2000: 747).

Leonardo Sciascia ha sottolineato: «la popolare “superstitio” nei riguardi del ritratto fotografico che è come un consegnarsi a mani altrui: al destino, alla morte, a Dio. […] Il senso, la premonizione, che la fotografia abbia a che fare con l’identità e con la morte. […] nulla è più vicino all’abolizione del tempo, tra le rappresentazioni che l’uomo sa dare della propria vita, della fotografia; ma al tempo stesso, nulla ne è più lontano» (Sciascia 1980: 75). La fotografia non è la variante morta delle cose, ma la variante viva di una cosa altra che si sviluppa secondo un suo metabolismo. Parlare del tempo di durata dell’immagine ci fa pensare alla sua essenza, alla sua sostanza, alla sua anima.

Un esempio lampante di questo atteggiamento lo ritroviamo sull’edizione siciliana del Giornale d’Italia del 24 gennaio del 1930 dove veniva pubblicata una fotografia di un vecchio siciliano con la seguente didascalia: «Il vecchio Lemmo Domenico, fu Antonio, da Tripi (prov. di Messina). Veste il drappo e porta la berretta. Per una credenza superstiziosa i vecchi che si fanno fotografare morrebbero subito, onde per allontanare il malocchio il vecchio pone il pollice fra l’indice e il medio della mano sinistra». Il demologo siciliano Giuseppe Cocchiara osservando questa foto notava come la fotografia documenta due sopravvivenze: «quella della “mano in fica” e quella che gli etnografi chiamano dell’ombra o del riflesso. Secondo la mentalità primitiva, farsi fotografare significa perdere la propria anima, in quanto chi ha la fotografia può esercitare su di essa qualsiasi azione che, per effetto magico, si ripete sull’originale» (Cocchiara, 1985: 73). A tale proposito già Frazer aveva osservato come il «principio che il simile produce il simile» è stato utilizzato da molti popoli per danneggiare il nemico attraverso atti distruttivi della sua immagine, che in quanto copia perfetta dell’originale avrebbe inferto al soggetto ritratto le stesse sofferenze inflitte alla sua effige. «Ogni tanto il mondo civile viene scosso da un paragrafo nei giornali che dice come in Scozia è stata trovata un’effige piena di spille conficcatevi dentro allo scopo di far morire un padrone o un prete nocivo» (Frazer, 1973 92)17. In Sicilia ancora fino a qualche decennio fa le immagini fotografiche venivano utilizzate, insieme a parti intime della persona ritratta, per effettuare legature d’amore18. Cocchiara notava come «ancor oggi si crede nell’isola di Scarpanto, che le vecchie le quali si fanno fotografare muoiano di deperimento» (Cocchiara, 1985: 73). Questa credenza deriva dalla concezione che l’anima è intimamente legata al corpo, da essa deriva l’identità della persona e da essa, quindi, dipende la sua vita. Ritrarre una persona è come portargli via l’anima, pensata come la copia in spirito del corpo, da qui il deperimento del corpo e la possibilità di effettuare sulle immagini azioni magiche19. Le immagini, del resto, non sono che schermi sui quali proiettiamo la nostra identità, ricreiamo la nostra memoria. «E dalla vita e la morte delle immagini passiamo alla vita e la morte di noi che produciamo e osserviamo immagini e a coloro che queste rappresentano. Perché le immagini non sono altro che schermi sui quali proiettiamo la nostra identità e la nostra memoria, cioè quello di cui siamo fatti» (Fontcuberta 2018: 73).

4. FACCIO SELFIE, QUINDI I SONO

Dalla paura a farsi fotografare si è passati all’invasione dell’autoscatto, del selfie, che mette a nudo la nostra intimità, il nostro voler essere. In ambito epistemologico il selfie introduce a un cambiamento radicale, poiché trasforma il noema della fotografia «questo è stato» in «questo io sono». I selfie sono indiscutibilmente l’espressione di una società vanitosa ed egocentrica che vive sulla instant-photography, funzionano nell’era digitale come «regolatori di emozioni» (cfr. Oullette, 2014).

Una rapida occhiata ci permette di distinguere due modalità del selfie: autoritratto e riflessogramma. Per il primo basta un obiettivo grandangolare e un braccio abbastanza lungo; nel riflessogramma, invece, ci facciamo una foto davanti a uno specchio. Questi’ultimi hanno anticipato i selfie, del resto niente meglio di uno specchio evoca la presunta mimesis dell'atto fotografico.

Holmes ebbe la seminale idea di battezzare il dagherrotipo come «specchio dotato di memoria». Da quel momento specchio e memoria sono diventati i pilastri della fotografia: lo specchio fa appello allo sguardo, la memoria alla sua conservazione.

Gli specchi si riempiono di senso solo quando qualcuno vi si guarda, possiamo assimilare la storia dello specchio a quella della visione, della conoscenza e della coscienza.

Per Lewis Mumford (1997) «l’io dello specchio corrisponde all’emergere del mondo fisico». Anche la psicanalisi si avvale dello specchio per spiegare una tappa dello sviluppo infantile, nel quale il bambino si riconosce nel riflesso e ne identifica la sua immagine. Per Lacan, questo «stadio dello specchio» costituisce uno spartiacque necessario alla definizione dell’io.

Se poniamo tutto sul piano metaforico, potremmo dire che in questo specchiarsi s’intromette la dialettica fra eros e thanatos: carica erotica/mortifera dell’immagine che si manifesta in quello che Barthes definisce «intermittenza», un gioco fra ciò che appare e scompare.

Gli specchi e le macchine fotografiche tendono a definire il carattere panottico della nostra società: tutti vengono mostrati, attratti dal piacere vuogheristico di esserci e di essere guardati. Per un motivo o per un altro, ci ritroviamo invasi dagli specchi.

L’immagine è smaterializzata, ha una nuova configurazione: informazione allo stato puro, contenuto senza forma. I riflessogrammi ci mettono di fronte al debito che la fotografia ha con lo specchio: da un lato l’alterità, dall’altro la coscienza di essere oggetto e soggetto dell’immagine.

Si ha una contrapposizione della visione, in quanto, mediante lo specchio il fotografo è guardato dalla fotografia.

Macchina fotografica e specchio condividono un potere magico. Di fatto, Lacan affermava che «[il dagherrotipo] fissava l’immagine sfuggente dello specchio. Era un prodigio che non si spiegava, ma al quale era necessario credere».

La postfotografia, al contrario della tecnica analogica, fornisce informazioni visive senza supporto alcuno: privo di corporeità, l’essere postfotografico è pura anima e spirito. Secondo Sartre «l’immagine è un certo tipo di coscienza. L’immagine è un atto e non una cosa». Il problema affonda le sue radici nel garantire l’immagine su un’idea di sintesi che finiva per sopravvalutare l’immagine-cosa rispetto all’immagine-atto. Non si può resistere alla tentazione di estrapolare l’opposizione fra cosa e atto come correlativi di immaterialità e materialità. La smaterializzazione tende alla fluidità delle immagini, premiando l’iper-riproducibilità e la diffusione delle stesse. Come segnala José Pablo Concha Lagos «la tecnologia binaria modifica il sistema di immagazzinamento: non si ha più un deposito di carattere materiale; si ha, invece, solo un linguaggio numerico, c’è smaterializzazione […] la fotografia, come matrice numerica, entrerà in crisi. La storia personale corre il rischio di andare perduta, anche se è ben conservata» (Lagos, 2004: 56). Nell’album fotografico, luogo di raccolta della memoria fotografica analogica, hanno luogo due crisi confluenti: il menzionato smarrimento della conservazione della memoria e la disattivazione dei riti della foto-vudù.

È vero che l’album di famiglia è passato a miglior vita? La sua sparizione va inclusa nei danni collaterali della trasformazione della fotografia in postfotografia?

Tornando indietro nel tempo, i primi album apparvero intorno al 1860 e costituivano un progetto la cui costruzione coinvolgeva varie generazioni. Si inizia a «collezionare» carte da visita, successivamente l’album diventa una sorta di reportage sociale: feste e cerimonie, viaggi, date e nomi. La nascita delle macchine fotografiche portatili ha portato con se una nuova immagine, meno rigida, che si allarga alle diverse tematiche di produzione: matrimoni, nascite, festività ed eventi sociali, insomma, tutte quelle tappe fondamentali della biografia personale e collettiva, dalla quale non poteva esimersi la morte, abolita poi dalla guerra. L’album era, dunque, un deposito di sorrisi nel quale non avevano posto né il conflitto né la tragedia.

In questo modo l’album svolgeva una funzione lenitiva, un rifugio della memoria al quale ci si rivolgeva per ottenere stabilità e senso di appartenenza.

Negli anni successivi, l’album smette di essere transgenerazionale per diventare solo generazionale. Infine, la cronaca familiare viene sostituita da quella personale.

L’attuale declino dell’album di famiglia inizia ad essere giustificato dalla crisi dell’organizzazione familiare. Come documentare qualcosa che sta scomparendo? Si aggiunge, poi, un altro fattore: l’atto fotografico era riservato solo agli adulti e con il semplificarsi della tecnica scende anche l’età media dei fotografi. Negli ultimi anni, invece, stiamo assistendo alla migrazione di questa pulsione autobiografica: la rete veicola nuove forme biografiche. In questo canale, internet ci obbliga a definire il pubblico e il privato.

La fotografia digitale non ha alcuna caratteristica fisica. Senza questa condizione di oggetto fisico, l’immagine non può essere investita del suo potere magico e smette di agire come talismano o reliquia. Le fotografie sono nella loro funzione assimilabili alle bambole vudù, dei piccoli feticci realizzati con vari materiali, dalla forma antropomorfa. La collezione del Museé Nicéphore Niépce ha un piccolo fondo di foto-vudu: un centinaio di anonime foto di famiglia. Invece di sbarazzarsi delle foto, chi ha praticato le mutilazioni ha preferito conservare il ricordo dei bei momenti ed eliminare solo la persona non gradita dalla storia, una damnatio memoriae. Si ha la sparizione del volto, come sede dell’anima, ma non del corpo. Il corpo senza volto mira alla sostituzione. In principio questi atti sono dettati dalla rabbia, sono un castigo, un monito per non dimenticare il torto subito. Naturalmente, queste qualità magiche delle immagini vengono meno con la postfotografia. Senza una sostanza solida, la postfotografia esiste e non esiste. Non si può punire un’immagine digitale, quindi si è spinti a ricercare altre entità con cui sublimare il dolore.

La massificazione delle immagini ha sconvolto le regole con cui ci relazioniamo a esse. In un momento in cui l’immagine costituisce lo spazio sociale dell’uomo, non possiamo permetterci che vada fuori controllo. Abbiamo perso la sovranità sulle immagini.

Ciò che viene meno è la coscienza storica e la svalutazione del futuro. L’intera società si ritrova a far i conti con problemi globali, portando i singoli individui ad atti estremi di individualismo, che Lipovetsky definisce «la seconda rivoluzione individualista». Ci ritroviamo sommersi dall’iperconsumo di novità sempre più effimere, invasi da nuove tecnologie che ci mettono a disposizione mezzi di comunicazione à la carte, rendiamo oggetti di culto le immagini e gli specchi.

La tecnologia ha trasformato il nostro mondo di comunicare e conoscere. I mediatori di questa nuova realtà sono i social network. L’onnipresenza delle fotocamere, cresce al ritmo di una smania martellante. Oggi siamo invasi dal mare delle immagini, nel quale rischiamo di annegare (cfr. Miller, 2019; Biscaldi-Matera, 2019).

Che cosa si cela dietro al neologismo «postfotografia»? «Post» indica l’abbandono o l’allontanamento. Che cosa stiamo abbandonando? Non si tratta di un problema terminologico, si tratta della trasmutazione di alcuni valori fondamentali. Non stiamo abbandonando la fotografia, stiamo andando oltre, come osserva Geoffrey Batchen. «Fotografia è il nome di un problema piuttosto che di una cosa. Scrivere una storia delle origini degna di questo problema —una storia per la fotografia piuttosto che una storia delle fotografie: questa è la sfida che abbiamo di fronte» (Batchen, 2014: 78).

La sfida è quella di ripensare la questione delle origini —e quindi l’identità della fotografia— non chiedendosi semplicemente chi sia l’inventore del medium, ma come e in quale contesto nasca il desiderio di fotografare, che si manifesta in diversi autori già molto prima della sua ideazione. Il testo si conclude con un Epitaffio che indaga lo status della fotografia con l’avvento del digitale e la sua natura artificiosa. In una crisi sia epistemologica sia tecnologica, in cui «il fotografo, completamente indifferente, sembra ormai incapace di trovare qualcosa di nuovo da fotografare» (Virilio, 1980: 145), è necessario e inevitabile che si affermi un altro modo di vedere e di essere, conforme a un nuovo modo di percepire il reale. Il dibattito sulle immagini non riguarda quindi solo il futuro della fotografia, ma anche la natura del suo passato e del suo presente. Da qui deriva la necessità di definirne l'origine, processo che per Derrida (1977) pone inevitabilmente le basi di una gerarchia che privilegia il primo elemento su quelli che seguono, portando a una lettura univoca di un complesso contesto estetico, sociale e culturale.

La postfotografia supera e trascende la fotografia, almeno quella che abbiamo conosciuto fino ad adesso. Il termine postfotografia nasce negli anni Novanta in ambito accademico. La tecnologia a portata di tutti ravvivò la certezza che la fotografia stesse inaugurando una nuova fase. In questo modo, si stravolge l’ontologia dell’immagine e la metafisica dell’esperienza visiva. Si intaccava così anche la trasparenza dei prodotti della macchina fotografica (analogica). Questo discorso sulla verità ha generato un dibattito iniziale: come questo discredito andasse a colpire le diverse sfaccettature dell’attività fotografica. In fondo, non cambia nulla: le immagini continuano a essere generate dalle identiche proprietà della luce e dell’ottica. L’era della postfotografia si è consolidata con la rivoluzione digitale. Il mondo si è trasformato in uno spazio dominato dall’istantaneità e dalla globalizzazione.

Noi umani ci siamo evoluti in Homo Photographicus, rispondendo ad ambienti in cui proliferano, per eccesso, macchine fotografiche. Siamo produttori e consumatori di immagini. Siamo in una piena «epidemia delle immagini».

«Il modello dell’occhio umano si va perdendo come dispositivo di visione in favore di una nuova logica di produzione visiva che preferisce far esistere le immagini costruendole a partire da altre» (Fontcuberta, 2018: 27).

Secondo José Luis Brea, ci troviamo di fronte a delle immagini che «possiedono la qualità delle immagini mentali. Sono spettri, puri spettri, alieni a ogni principio di realtà. Esse sono nell’ordine di ciò che non ritorna, di ciò che non si muove nel mondo per restarvi» (Brea, 2014: 68). La fotografia ci permette di riflettere sulle nostre azioni riguardo all’immagine, e ci spinge a un esercizio di filosofia legato all’esperienza della nostra vita digitale.

Questa tendenza garantisce una massificazione senza precedenti, un inquinamento iconico che, da un lato è incentivato dallo sviluppo dei dispositivi di cattura e, dall’altro, dall’enorme proliferazione di macchine fotografiche. Già negli anni Sessanta McLuhan aveva preconizzato il ruolo dei mass media e aveva proposto l’iconosfera come villaggio globale.

Oggi produciamo immagini in modo del tutto naturale e con esse comunichiamo, possiamo definire dunque la postfotografia come un linguaggio universale.

Osservare tutto da una prospettiva sociologica ci permette di capire come le interfacce che ci connettono al mondo siano legate agli aspetti della postfotografia nella vita quotidiana. Di fondamentale importanza è la modalità con cui queste immagini riescono a essere trasformate in bit e circolare nei maggiori social network. Del resto la postfotografia non è altro che la stessa immagine adattata alla nostra vita online. In sostanza, la postfotografia sancisce la smaterializzazione dell’autorialità e quella dei contenuti.

La fluida identità è una delle carte vincenti di internet. Da tempi lontani, l’identità è sempre stata assoggettata alla parola, al nome del singolo individuo. Con il proliferare della fotografia, invece, l’identità della persona è passata dal nome all’immagine, il fenomeno del selfie ne costituisce la prova. Si viene a creare una nuova categoria di immagini: fotografarsi e mostrarsi è il nuovo gioco della comunicazione nelle nuove subculture postfotografiche. A differenza delle immagini ottenute nei primi anni della fotografia, queste non servono a ricordare qualcosa, ma a mandare messaggi: le foto si trasformano in puri gesti comunicativi. Nell’era dell’ Homo Photographicus, siamo tutti produttori e consumatori, attraverso i social network, di immagini, tramite le quali certifichiamo la nostra presenza nel mondo.

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Fecha de recepción: 23 de marzo de 2020
Fecha de aceptación: 9 de junio de 2020

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* Le considerazioni sviluppate in questo saggio derivano da mio volume Oralità dell’immagine. Etnografia visiva nelle comunità rurali siciliane (Perricone, 2018) e dalla discussione pubblica e privata che nella primavera/estate del 2019 ho avuto modo di sviluppare con Carlo Severi (2018), a partire dal suo libro L’oggetto-persona. Rito Memoria Immagine e de relato con Joan Fontcuberta (2018), a partire dal suo libro La furia delle immagini. Note sulla postfotografia.

1 Ci riferiamo in particolare a Gottfried Boehm e al suo volume La svolta iconica. Al centro di questa raccolta di saggi sono le «immagini»: non solo le opere d’arte figurativa, ma anche le immagini mentali e quelle sognate, le metafore, i gesti, le immagini speculari, l’eco e il mimetismo, nel tentativo di sviluppare una scienza dell’immagine in analogia con una scienza generale del linguaggio e con l’attuale rivoluzione digitale. Secondo l’autore, nel XIX secolo si è compiuta una «svolta iconica», in analogia con la «svolta linguistica» coniata da Richard Rorty. Partendo dall’idea di «valenza d’essere» di Gadamer elaborata in Verità e metodo, che incarna l’immagine nel suo archetipo, Boehm elabora la sua riflessione sull’immagine come fenomeno distinto dal linguaggio e operante attraverso un meccanismo che si articola nell’interazione fra materia, colore, linea e «figuralità». L’autore utilizza l’arte contemporanea come terreno di verifica di una teoria dell’immagine, proprio per la frattura che la modernità ha determinato nella tradizione figurativa con il superamento del classico modello di rappresentazione.

2 Per una panoramica degli studi internazionali cfr. Jenks (1995); Mirzoeff (1999); Elkins (2003); Farago y Zwijnenberg (2003); Buck-Morss (2004); Rampley (2005). Per un inquadramento complessivo dei visual studies in Italia cfr. Coglitore (2008); Pinotti y Somaini (2009); Pinotti y Somaini (2016).

3 Sulla questione dell’iconoclastia cfr. almeno Russo (1997); Bettetini (2006). Sui collegamenti tra questo dibattito e la cultura visuale contemporanea cfr. Debray (2010); Bino (2014).

4 Sull’argomento una selezione di testi, tradotti in italiano, dei diversi protagonisti del cosiddetto «ontological turn» tra antropologia e filosofia si trova in Consigliere (2014a; 2014b).

5 Donzelli (2007); Duranti (2004, 2007).

6 Per un approfondimento sulla rivisitazione della nozione di animismo in antropologia confronta Costa y Fausto (2010); Mancuso (2018).

7 Viveiros de Castro ha «invitato a prestare attenzione ai molteplici sensi con cui in ontological turn va interpretato il termine turn. Esso andrebbe inteso non solo come “svolta, cambio di direzione”, ma anche come “giro di vite” rispetto alla deriva “epistemologica” a cui sarebbe andata incontro l’antropologia dopo la “crisi della rappresentazione etnografica”, e anche come “turno”, dal momento che il suo (di Viveiros de Castro) approccio, “prendendo sul serio” e “facendo spazio” (making room) al “punto di vista del nativo”, annuncia che in antropologia sia ora arrivato il suo “turno”» (Mancuso, 2016: 98). Per un’interpretazione complessiva di tenore critico dell’ontological turn come minimo comune denominatore di diverse correnti contemporanee delle scienze sociali e della filosofia, si veda Pellizzoni 2015; per una sintesi sull’ontological turn in italiano cfr. Brigati y Gamberi (2109); Viveiros de Castro (2019).

8 L’articolo è pubblicato sul numero monografico della rivista «Etnosistemi», a cura di Carlo Severi, dedicato a Antropologia e psicologia. Interazioni complesse e rappresentazioni mentali, oltre all’articolo di Viveiros de Castro (2000) troviamo un articolo dello stesso Carlo Severi (2000), uno di Manuela Tartari (2000) e inoltre testi di Bartlett, Devereux, Witehouse, Airenti, Boyer, Houseman, Suralles. Lo stesso Carlo Severi curerà nel 2003 il numero speciale de «L’Homme» dal titolo Image et Anthropologie (n.165) con testi di Imbert, Careri, Severi, Antoine, Bouchy, Karadimas, Küchler, Taylor, Vidal, Prévost, Guy, Vert. Nel 2014 Carlo Severi insieme a Carlos Fausto cureranno il numero monografico dei «Cahiers d’Anthropologie Sociale» dedicato a L’image rituelle (n. 10) con testi di Severi, Fausto, Penoni, Vilaça, Franchetto, Mon- tagnani, Piedade, Bonhomme, Stépanoff.

9 L’importanza del saggio di Jakobson è data dal tentativo di proporre una classificazione dei tipi di traduzione, che egli suddivide in intralinguistica (o riformulazione, rewording), interlinguistica e intersemiotica (quest’ultima denominata anche «trasmutazione», transmutation), cfr. Jakobson 1966.

10 Almeno dalla pubblicazione del numero monografico della rivista L’Homme curato da Philippe Descola e Anne-Christine Taylor, La remontée de l’Amazone (Descola y Taylor, 1993).

11 Per un approfondimento sull’argomento cfr. ad esempio Meneses Bastos (1978); Basso (1981); Beaudet (1997); Seeger (2004); Fausto y Franchetto y Montagnani (2011); Brabec de Mori y Seeger (2013).

12 «Senza dubbio le immagini non sono senza potere, ma potrebbero averne molto meno di quanto pensiamo. Il problema è rendere più complessa e raffinata la nostra valutazione del loro potere e del modo in cui esso opera» e parlando del Manifesto per Al Jolson, The Jazz Singer, Mitchell sostiene che in questa immagine «le finestre dell’anima sono inscritte in maniera triplice, ossia come immagini oculari, orali e tattili, un invito a vedere, sentire e parlare al di là del velo della differenza razziale. Ciò che l’immagine ci fa desiderare di vedere è esattamente ciò che non può mostrare, come direbbe Jacques Lacan. Questa impotenza è ciò che le conferisce quel potere specifico che essa ha» (Mitchell, 2009: 112).

13 Le tesi di Gell hanno suscitato ampio dibattito internazionale, per una sintesi del pensiero di Gell e una rassegna bibliografica critica cfr. Pucci (2008); Faeta (2001: 77, n. 21), tra i più importanti contributi segnalati cfr. Bloch (1999: 119-128); Bloch (2009: 7-14); Arnaut (2001: 191-208); Coquet y Gell (2001: 261-263); Layton (2003); Bowden (2004); Myers (2004); Westermann (2005); Osborne y Tanner (2007).

14 Per un approfondimento dei due termini etnorama e vicinato cfr. Appadurai (2001: 71-92, 230-242).

15 Etimologicamente, la parola deriva dall’unione di due termini greci, ὀπτός (optós) vista e γράφω (grapho) scrittura. Il termine iniziò a essere usato ufficialmente nell’Università tedesca di Heidelberg nel 1877. La parola optografia fu coniata da Wilhelm Friedrich Khüne, un professore di fisiologia. Khüne era interessato a una teoria originale elaborata da un altro collega, il prof. Franz Christian Boll, un fisiologo, il quale sosteneva che all’interno della retina c’era un pigmento che si decolorava con la luce e appariva con il buio. Questa teoria avviò un nuovo mondo di ipotesi e teorie. Khüne, inoltre, era sicuro che grazie a questa tecnica sarebbe stato possibile scoprire l’identità di qualsiasi assassino analizzando la retina della vittima. L’ultima immagine vista dalla vittima avrebbe permesso di trovare il colpevole. Bisognava soltanto rimuovere la retina e cercare di conservare l’ultima immagine immagazzinata nell’occhio attraverso l’utilizzo di sostanze chimiche. Gli optogrammi erano già stati analizzati più di duecento anni prima dal frate Christoph Scheiner nelle opere Oculus del 1619 e Pantographice, seu Ars delineandi res quaslibet per parallelogrammum lineare seu cauum, mechanicum, mobile del 1631.

16 Dal greco εἴδωλα, in latino idola o simulacra, il termine compare in Democrito per indicare le immagini prodotte sulla sensibilità dagli effluvi di atomi provenienti dai corpi e del tutto simili ai corpi da cui provengono. Democrito estendeva il termine εἴδωλα anche ai simulacri degli dei.

17 Cfr. anche pp. 768-770, questi tratti della magia si possono classificare sotto il nome generale di «magia simpatica».

18 Testimonianza orale da me raccolta il 17/07/1990 a Calamonaci (AG). La registrazione integrale dell’intervista è custodita presso l’Archivio Etnografico Siciliano del Folkstudio di Palermo.

19 Per un approfondimento sulle concezioni magiche in ambito etnologico cfr. almeno Mauss (1965). Per un approfondimento sulle pratiche magiche in Sicilia cfr. Guggino (1978, 1986).