IL REGIONALISMO DIFFERENZIATO: L’ATTUAZIONE DELL’ART. 116, COMMA 3 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA, FRA PRINCIPI COSTITUZIONALI E DIRITTI DI CITTADINANZA

Silvio Gambino

IL REGIONALISMO DIFFERENZIATO: L’ATTUAZIONE DELL’ART. 116, COMMA 3 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA, FRA PRINCIPI COSTITUZIONALI E DIRITTI DI CITTADINANZA

Revista de Estudios Jurídicos, no. 24, 2024

Universidad de Jaén

EL REGIONALISMO DIFERENCIADO: LA APLICACIÓN DEL ART. 116, PÁRRAFO 3 DE LA CONSTITUCIÓN ITALIANA, ENTRE PRINCIPIOS CONSTITUCIONALES Y DERECHOS DE CIUDADANÍA

DIFFERENTIATED REGIONALISM: THE IMPLEMENTATION OF ART. 116, PARAGRAPH 3 OF THE ITALIAN CONSTITUTION, BETWEEN CONSTITUTIONAL PRINCIPLES AND CITIZENSHIP RIGHTS

Silvio Gambino *

Universidad de Calabria, Italia


Ricevuto: 05 January 2024

Accettato: 23 February 2024

Sommario: Nel quadro delle forme di stato unitarie a base regionale – lette alla luce del principio costituzionale di unità e di indivisibilità dell’ordinamento repubblicano – si pongono complesse questioni soprattutto con riguardo ai rapporti fra principio di autonomia territoriale (regionale e locale), principio di uguaglianza e principio di solidarietà. Nella prospettiva di attuazione del regionalismo differenziato nell’ordinamento italiano, tali tematiche sollevano dubbi di rilievo soprattutto con riguardo alle garanzie di effettività della protezione dei diritti fondamentali sociali. In tale prospettiva, lo snodo fondamentale dell’analisi di tale tematica rimane quello dei rapporti fra unità giuridico-politica della Nazione, forme della distribuzione territoriale del potere (anche eventualmente asimmetriche nell’ottica della previsione di “ulteriori forme e condizioni particolare di autonomia”, ai sensi dell’art. 116, c. 3., Cost.) e diritti di cittadinanza (‘unitaria’ e ‘sociale’).

Parole chiave: Stato regionale; regionalismo differenziato; diritti fondamentali sociali; unità giuridica; eguaglianza interterritoriale.

Resumen: En el marco de las formas unitarias de Estado con base regional -estudiadas a la luz del principio constitucional de unidad e indivisibilidad del orden republicano- se plantean cuestiones complejas sobre todo en cuanto a la relación entre el principio de autonomía territorial (regional y local), el principio de igualdad y el principio de solidaridad. En la implementación del regionalismo diferenciado en el ordenamiento jurídico italiano, estas cuestiones suscitan importantes dudas, especialmente en lo que se refiere a las garantías de eficacia de la protección de los derechos sociales fundamentales. En esta perspectiva, el nudo fundamental del análisis de esta cuestión sigue siendo el de la relación entre la unidad jurídico-política de la nación, formas de distribución territorial del poder (incluso posiblemente asimétricas en vista de la previsión de "formas ulteriores y condiciones particulares de autonomía", de conformidad con el art.116.3 de la Constitución italina ) y los derechos de ciudadanía ('unitaria' y 'social').

Palabras clave: Estado regional; regionalismo diferenciado; derechos sociales fundamentales; unidad jurídica; igualdad interterritorial.

Abstract: Within the framework of the regionally forms of state – under the constitutional principle of unity and indivisibility of the republican order - complex questions arise above all with regard to the relationship between the principles of territorial autonomy (regional and local), equality and solidarity. In the implementation of differentiated regionalism in the Italian legal system, these issues raise significant doubts especially regard to the guarantees of effectiveness of the protection of fundamental social rights. The fundamental matter of the analysis is the relationship between the juridical-political unity of the nation, forms of territorial distribution of power (even possibly asymmetrical in view of the provision of "further forms and particular conditions of autonomy", article 116, paragraph 3 of the italian Constitution) and citizenship rights ('unitary' and 'social').

Keywords: Regional state; differentiated regionalism; fundamental social rights; legal system unity; inter-territorial equality.

SOMMARIO

I. Premesse. II. Riforme territoriali e diritti di cittadinanza (unitaria e sociale). III. Rapporti fra autonomia regionale, diritti fondamentali e principi costituzionali di unità e indivisibilità della Repubblica nella lettura del Giudice delle leggi. IV. Alcune riflessioni di sintesi sulle problematiche attuative in tema di regionalismo differenziato. V. Conclusioni. VI. Bibliografia.

I. PREMESSE

Nel settantennio alle spalle, le tematiche del regionalismo e le relative parabole evolutive nella cornice costituzionale e comparata hanno costituito oggetto di analisi approfondite, pur senza prefigurare soluzioni in tema di revisione costituzionale e/o di attuazione legislativa idonee ad assicurarne la conformazione ai principi costituzionali e l’effettività dei diritti fondamentali (civili e sociali).

Nel più recente ventennio, così, tali tematiche hanno costituito un punto obbligato di snodo nella stessa comprensione della ratio, dei contenuti e degli stessi limiti delle riforme costituzionali del Titolo V. In tale prospettiva, le più recenti evoluzioni politico-istituzionali e le stesse problematiche di attuazione dell’art. 116, c. 3, Cost.1 hanno evidenziato ambiti e limiti del modello costituzionale regionale (e autonomistico) – la Repubblica delle autonomie2. con specifico riguardo ai rapporti e alle prospettive attese di riassetto territoriale delle competenze rispetto alle esigenze di garanzia dello statuto dei diritti di cittadinanza (unitaria e sociale).

Una tematica – questa – che, anche in ragione delle (recenti) problematiche poste dall’attuazione delle misure di contrasto della pandemia da sars-cov-23 – ha sollecitato, da ultimo, la ripresa di una ulteriore (prospettiva di) riforma costituzionale volta al riordino dei poteri, con la proposta di riallocazione a livello statale (fra le altre) della competenza concorrente in tema di tutela della salute4 e di istruzione, ma anche con il ripensamento dell’art. 116, c. 3, Cost. – se non proprio nella prospettiva abrogativa – in quella di interpretazione conforme al testo costituzionale (ovviando in tale seconda modalità alle resistenze frapposte alla sua abrogazione).

Un ripensamento – questo – nella intenzione dei proponenti, volto a rimuovere le problematiche poste dai rischi di lesione del principio di uguaglianza (a livello interterritoriale) e con esso della garanzia del principio costituzionale di unità e di solidarietà nazionale. Una simile visione, in dottrina e nel dibattito politico-istituzionale, ha portato infatti a prospettare le esigenze di una ulteriore “riforma della riforma” volta a superare persistenti incongruenze fra centro (statale) e periferia (regionale), con la valorizzazione delle esigenze di «positivizzazione costituzionale del principio unitario, attraverso la costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze e la introduzione della clausola di supremazia statale nel titolo V della parte seconda della Costituzione»,5 cui successivamente si è aggiunta la promozione di una iniziativa legislativa popolare volta a formalizzare la presentazione di una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare avente ad oggetto la «modifica dell’art. 116, c. 3, della Costituzione e dell’art. 117, cc. 1-3, con l’introduzione di una clausola di supremazia della legge statale e lo spostamento di alcune materie di potestà legislativa concorrente alla potestà legislativa esclusiva dello Stato».6

In tale quadro evolutivo, non si può escludere che alla base di simili indirizzi di riforma possa individuarsi una valutazione (forse anche molto) severa dell’indirizzo politico seguito nel più recente ventennio dal legislatore di attuazione del titolo V Cost. e dei tentativi di attuazione dell’art. 116, c. 3, Cost., secondo gli orientamenti prima del Governo Draghi (e degli ultimi due governi che lo avevano preceduto) e nel prosieguo del Governo Meloni, con il deposito parlamentare di un ddl di attuazione dell’art. 116, c. 3, Cost.7 La discussione pubblica ora ripartita sulla base di tale disegno di legge (attuativo dell’art. 116, c. 3, Cost.), unitamente alle valutazioni critiche (di una parte) della dottrina costituzionalistica, hanno determinato l’allarme preoccupato del Presidente della Repubblica, che vi ha letto rischi palesi per l’unità e la solidarietà nazionale e compromissione della uniformità dei diritti (sociali e civili) al nord e al sud del Paese.8

Sostenuto, nel corso dell’ultimo ventennio, dall’appoggio delle forze della maggioranza parlamentare pro-tempore,9 a cavallo del 1999/2001, il legislatore di revisione costituzionale, e a seguire il legislatore di attuazione (l. n. 42/2009), cui ora si accompagnano i tentativi di attuazione legislativa dell’art. 116, c. 3, Cost., avevano assunto di potersi fare carico delle esigenze rappresentate da una società in rapida trasformazione che la politica aveva colto nelle pretese (fattualmente) secessive di alcune parti del territorio del Paese (quelle fiscalmente più ricche), nel quadro di ideologie sovranistiche seguite da forze politiche localistiche, secondo un indirizzo sperimentato anche in altre esperienze europee (come, fra le altre, in Catalogna).

In una simile prospettiva di incertezze del regionalismo sperimentato dal Paese, così, era praticamente inevitabile che l’attuazione del titolo V Cost. registrasse concrete difficoltà e resistenze attuative, determinandosi in tal modo, nel corso del più recente ventennio, le stesse condizioni per interventi reiterati della Corte costituzionale che, con le sue pronunce, come è stato sottolineato in dottrina, ha “riscritto” giurisdizionalmente il riparto delle competenze fra Stato e regioni, valorizzando nell’ottica della sussidiarietà verticale ambiti competenziali che il legislatore di revisione costituzionale aveva attribuito (in modo frettoloso) alla competenza concorrente ovvero a quella esclusiva delle regioni. In tale prospettiva, si colloca da ultimo lo stesso indirizzo giurisprudenziale della Corte nel conflitto fra Stato e regioni circa la spettanza della «profilassi internazionale» in tema di contrasto della pandemia da sars-cov-2 (sent. cost. 37/2021) (Adamo, 2022).

II. RIFORME TERRITORIALI E DIRITTI DI CITTADINANZA (UNITARIA E SOCIALE)

Nella evoluzione costituzionale del Paese, il tema dei diritti fondamentali ha registrato, come era immaginabile che potesse accadere, una attenzione costante della dottrina costituzionale, in particolare in occasione del dibattito istituzionale sull’attuazione degli statuti regionali e del ‘federalismo fiscale’ e ora del regionalismo differenziato (Pace, 1997; D’Atena, 1994; Groppi, 2008; Gambino, 2021b).

Le tematiche evocate nel titolo di questo paragrafo, così, risultano fondamentali nell’analisi costituzionale (oltre che in quella comparatistica) in ragione del loro porsi le complesse questioni poste dal rapporto fra principio di uguaglianza e principio di autonomia territoriale (regionale e locale) nel quadro delle forme di stato unitarie a base regionale e di quelle federali; tematiche – queste ultime – che nella prospettiva di attuazione del regionalismo differenziato sollevano dubbi di rilievo nella stessa ottica del costituzionalismo moderno e contemporaneo.

Sia infatti che si pensi a una formulazione simil-federalistica della forma di Stato per come emersa dalle revisioni costituzionali degli anni ’90 in Italia, sia che si faccia riferimento ad esse come volte al mero rafforzamento del regionalismo disciplinato nella Costituzione del ’47, il tema centrale della riflessione rimane quello della forma di Stato e al suo interno dei contenuti dell’autonomia territoriale nonché della idoneità di quest’ultima a farsi carico dello stesso ambito dei diritti (in modo eventualmente anche asimmetrico rispetto alla distribuzione territoriale delle competenze fra regioni a statuto speciale, regioni ordinarie e, in futuro, se attuate, regioni a statuto differenziato, nel rispetto dei principi fondamentali della Carta).10

Il tema della riflessione appena richiamato ha incrociato diversi dibattiti: quello sul regionalismo politico (e sulle relative continuità e discontinuità con il federalismo), quello sul federalismo fiscale e quello infine della pretesa ‘sovranità’ da parte di alcuni territori regionali (in Italia la c.d. Padania, in Spagna la Catalogna). Considerata la natura della materia ora oggetto di discussione, il tema ha registrato reiterati ricorsi e conseguenti interventi dei Giudici delle leggi nei due Paesi.

Più di un decennio fà, tale questione era stata posta con riguardo alla legittimità costituzionale di una “Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo” (1.r. Sardegna n. 7/2006), nella quale si prevedevano (art. 2.2.a) “idonee forme per promuovere i diritti dei cittadini sardi in relazione a condizioni connesse con la specificità dell’isola” (sent. cost. n. 365/2007).

In tale prospettiva, la questione porta a interrogarsi sulla spettanza del principio di sovranità in uno Stato a base regionale e sulle relative diversità con gli Stati federali. In tale quadro, così, ci si è chiesto se il principio di uguaglianza, oltre a costituire un diritto fondamentale dei cittadini, non costituisca anche un principio essenziale di articolazione dello stesso pluralismo istituzionale, senza il cui riconoscimento non sarebbe possibile l’esistenza stessa dello Stato costituzionale contemporaneo e delle forme di riparto territoriale dei poteri da esso disciplinate.

Alla questione di legittimità costituzionale a suo tempo sollevata alla sua cognizione, la Corte aveva risposto facendo giustizia dell’astratto ‘nominalismo’ di chi invocava in modo inadeguato terminologie ascrivibili a modelli federali e perfino confederali, osservando (si direbbe quasi in forma pedagogica) che “il dibattito costituente …. fu assolutamente fermo nell’escludere concezioni che potessero anche solo apparire latamente riconducibili a modelli di tipo federalistico o addirittura di tipo confederale ... Pretendere ora di utilizzare in una medesima espressione legislativa … sia il concetto di autonomia sia quello di sovranità equivale a giustapporre due concezioni tra loro radicalmente differenziate sul piano storico e logico (tanto che potrebbe parlarsi di un vero e proprio ossimoro piuttosto che di una endiadi), di cui la seconda certamente estranea alla configurazione di fondo del regionalismo quale delineato dalla Costituzione e dagli Statuti speciali” (sent. cost. n. 365/2007, cons. dir. 7).

Da una simile precisazione relativa alla terminologia necessaria per inquadrare la vigente forma di Stato nazionale – per la Corte – ne consegue che, sul versante dei diritti, i soggetti dell’ordinamento statale sono tutti i cittadini il cui insieme costituisce il ‘popolo’, mentre i soggetti dell’ordinamento regionale sono i residenti, il cui insieme costituisce la ‘popolazione’ (di cui agli artt. 132 e 133 Cost.). In tale quadro, “il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. esclude che possano attribuirsi tutele e posizioni differenziate in ragione delle diverse etnie ... Lo stesso territorio regionale non può configurarsi come luogo della sovranità regionale, entro il quale sia esercitabile uno ius excludendi alios, giusta la disposizione dell’art. 16 Cost.” (sent. cost. n. 365/2007, cons. dir. 1.3)..

Una volta assunta la centralità di tale principio come coessenziale allo Stato democratico e costituzionale, si tratta di cogliere quanto della sua essenzialità possa rendersi disponibile alle esigenze poste dal principio di autonomia territoriale (e alle stesse sue esigenze di differenziazione), con la connessa titolarità, da parte delle Regioni e delle autonomie locali, della potestà di dotarsi di un indirizzo politico-legislativo proprio (se parliamo delle Regioni) e di un indirizzo amministrativo proprio (se parliamo degli enti territoriali), l’uno e l’altro da esercitarsi comunque nel rispetto dei princìpi di unità giuridica ed economica dell’ordinamento repubblicano e dei principi fondamentali (delle materie di competenza legislativa concorrente) riservati alla legislazione esclusiva dello Stato.

Le esigenze poste dal diritto costituzionale e, più in particolare, dalla natura inviolabile e inderogabile dei diritti fondamentali (sociali e non), in tale quadro, portano a sottolineare come, in uno Stato costituzionale, la diversità (asimmetria competenziale) conosce il limite inderogabile dell’eguaglianza. Pertanto, nessuna diversità può giustificare la compressione (se non il vero e proprio sacrificio) dell’eguaglianza in ciò che della stessa risulta sostanziale. Detto in altri termini, con riguardo al tema ora in esame, il diritto alla differenziazione – in base al quale la posizione giuridica dei soggetti può differenziarsi nelle varie Regioni nei termini delle differenziate forme di esercizio delle competenze legislative e amministrative – non può estendersi all’ambito dei diritti e dei doveri costituzionali. In tale ambito, come aveva argomentato in modo convincente J. Garcìa Morillo, “l’uguaglianza deve essere assoluta; non vi può essere differenziazione nel godimento dei diritti fondamentali o nell’adempimento dei doveri costituzionali” (García Morillo, 1998).

Con riguardo a tale tematica, vi è un ulteriore profilo da richiamare, la cui discussione appare necessaria nell’ottica di una analisi approfondita del regionalismo italiano. In tema, si deve ricordare come, al fine di garantire i valori e i princìpi accolti nel ‘patto costituente’ stipulato fra le culture e le forze politiche del Paese nella prospettiva della lotta al nazi-fascismo (allora ancora presente sul territorio), l’ordinamento costituzionale italiano ha previsto un ricco catalogo di valori, di principi e di disposizioni costituzionali di riconoscimento e di tutela dei diritti fondamentali che si pongono nei confronti del legislatore come limite invalicabile allo stesso potere di revisione costituzionale. Unitamente al principio democratico e a quello di sovranità popolare, si tratta, in primis, del principio di centralità della persona umana e dei principi ad esso strettamente connessi dell’eguaglianza formale e sostanziale dei soggetti e di solidarietà, da realizzarsi con misure idonee ad assicurare un particolare favor ai ‘soggetti deboli’, i lavoratori (in primis) ma non solo. Accanto al riconoscimento e alla protezione delle classiche libertà negative, e accanto a una generale rivisitazione delle libertà economiche nel senso di una lettura conforme al relativo esercizio ai ‘fini sociali’ fissati dal legislatore, tali principi trovano nella positivizzazione costituzionale di cataloghi di diritti fondamentali lo strumento fondamentale di garanzia, cui si riconnette strettamente il principio di unità e di indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.), relativo al riconoscimento e alla promozione delle autonomie locali, nonché all’intero Titolo V Cost.

Tali considerazioni, nell’ottica di questa premessa, sottolineano come la Costituzione non consenta, né renda negoziabile, la riflessione sulla inderogabilità dei princìpi supremi e dei diritti fondamentali dell’ordinamento costituzionale, il cui mantenimento è essenziale – come sottolinea la dottrina costituzionale – “per la conservazione della stessa identità dell’ordine costituzionale vigente, sicché l’eliminazione di quei princìpi determinerebbe allo stesso tempo la distruzione dell’intera Costituzione e la sua sostituzione con un ordine costituzionale completamente diverso” (Luciani, 2016).

La Corte costituzionale ha confermato in modo reiterato tale statuto dei diritti inviolabili cogliendoli come limiti impliciti alla revisione della Costituzione. Dopo alcune importanti pronunce nel corso degli anni ’60 e ’70 del secolo passato – per come si ricorderà – lo ha fatto in modo motivato (e convincente) con la sent. n. 1146 del 1988. In tale fondamentale pronuncia, la Corte afferma che “la Costituzione italiana contiene taluni princìpi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali”. Lo ha ribadito di recente – come osserveremo nel seguito – con la giurisprudenza in tema di referendum consultivo, in merito alla proposta di legge costituzionale per l’attribuzione alla Regione Veneto di forme e condizioni particolari di autonomia. Per la Suprema Corte, in tal senso, non è difficile rendersi conto che tale proposta di legge, nel riconoscere uno spazio alla iniziativa popolare regionale, finisce con lo sconfessare il principio unitario a base dell’ordinamento “quasi che nella nostra Costituzione, ai fini della revisione, non esistesse un solo popolo, che dà forma all’unità politica della Nazione e vi fossero invece più popoli... Non è quindi consentito sollecitare il corpo elettorale regionale a farsi portatore di modificazioni costituzionali, giacché le regole procedurali ed organizzative della revisione, che sono legate al concetto di unità e indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost. e art. 117, I co.), non lasciano alcuno spazio a consultazioni popolari regionali che si pretendano manifestazione di autonomia” (sent. cost. n. 496/2000).

Lo snodo fondamentale, così, rimane ancora una volta quello dei rapporti fra unità giuridico-politica della Nazione, forme della distribuzione territoriale del potere (anche eventualmente asimmetriche nell’ottica della previsione di “ulteriori forme e condizioni particolare di autonomia”, ai sensi dell’art. 116, c. 3., Cost.) e diritti di cittadinanza (‘unitaria’ e ‘sociale’).

Solo a partire da un simile approccio, infatti, si è in grado di comprendere se l’indagine e la valutazione delle soluzioni perseguite dal legislatore di revisione e dal legislatore (statale e regionale) ordinario non degradino nella mera prospettiva di un regionalismo (più o meno latamente) funzionalista, ma parta, s’ispiri e si radichi nell’armonia dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica (princìpi indisponibili, come si è ricordato, allo stesso procedimento di revisione costituzionale), cui l’ordinamento costituzionale assegna la funzione di tutela del ‘nucleo duro’ del patrimonio costituzionale, individuabile nei princìpi e nei diritti fondamentali per come positivizzati nell’ordinamento costituzionale.

Nel quadro di una riflessione di sintesi sui diritti fondamentali nell’ambito della forma di Stato unitaria a base regionale, come quella italiana, si può osservare che una indagine attenta delle filosofie istituzionali sottese al dibattito costituzionale in materia di diritti fondamentali e di forma di Stato consente di sottolineare come il costituente e il legislatore di revisione costituzionale italiano, nella distribuzione dei poteri e delle responsabilità istituzionali fra centro e periferia, hanno assegnato allo Stato, nelle sue istanze centrali, la funzione di garanzia dei diritti negativi (giurisdizione, legislazione, sicurezza giuridica, ecc.), mentre, per quanto concerne i diritti positivi (diritti sociali), essi hanno assegnato alle regioni competenze eminentemente attuative, volte ad assicurare l’erogazione delle prestazioni legislative e amministrative, nel rispetto dei princìpi e delle disposizioni costituzionali relative a tali diritti e le stesse forme della partecipazione dei destinatari dell’attività amministrativa.

Nei rapporti fra autonomia territoriale, regionalismo ed (effettività dei) diritti, così, l’esperienza italiana appare evidenziare la perdita di un’occasione; in altri termini, le regioni non hanno costituito quella opportunità di avvicinare la funzione pubblica al cittadino, né l’occasione per rendere maggiormente effettivo, sussidiario, e partecipato, l’esercizio di quelle competenze costituzionali assegnate al livello regionale, in modo da rendere maggiormente effettivo il modello di decentramento politico-istituzionale. Discorso omologo dovrebbe anche farsi per quanto concerne quei diritti c.d. della ‘terza generazione’, come, ad es., il diritto all’ambiente ‘salubre’, la tutela del territorio e delle persone dagli inquinamenti, ecc., per i quali sempre più evidente appare lo scarto fra aspettative sociali (interessi diffusi) ed esercizio responsabile delle competenze in materia ambientale e urbanistica da parte del sistema regionale e degli enti locali.

La tematica dei diritti fondamentali nello Stato regionale secondo quanto previsto nell’originaria formulazione del Titolo V Cost., in tale prospettiva, non sembrerebbe offrire una prospettiva di particolare pregio; né il livello regionale ha consentito di evidenziare, nella prassi, profili attuativi delle competenze regionali idonei ad influenzare positivamente l’effettività dei diritti sociali. In tale quadro, il tema dei diritti sociali si limita alle funzioni svolte in tema di garanzia e di effettività degli stessi da parte del giudice ordinario e soprattutto da parte di quello costituzionale.

L’ordinamento costituzionale italiano (nella sua originaria formulazione) non si preoccupa di disciplinare in modo omologo tale materia, in ragione della natura propria della sua forma di Stato che, in presenza della costituzionalizzazione del principio autonomistico (art. 5 Cost.), assegna alle Regioni competenze legislative (e amministrative) in materie enumerate nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale o con quello di altre Regioni (art. 117 Cost., testo previgente). Tali princìpi – in uno Stato a Costituzione rigida – limitano la potestà legislativa (esclusiva e concorrente) nel suo concreto esercizio. Di tal ché, non appariva necessario positivizzare con altre disposizioni l’inderogabilità di princìpi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, che si sottraggono, per come ricordato, allo stesso potere di revisione costituzionale.

III. RAPPORTI FRA AUTONOMIA REGIONALE, DIRITTI FONDAMENTALI E PRINCIPI COSTITUZIONALI DI UNITÀ E INDIVISIBILITÀ DELLA REPUBBLICA NELLA LETTURA DEL GIUDICE DELLE LEGGI

In tale quadro, anche solo a muovere dalle più recenti evoluzioni del sistema regionale-locale, così, appare necessario soffermare l’attenzione sui più recenti indirizzi di attuazione costituzionale (art. 116, c. 3, Cost.), ancorché il/i testo/i legislativo/i (almeno al momento della stesura di questo testo), dopo un ritardo ventennale, solo da poco ha ripreso il suo iter attuativo destinato a perfezionarsi con le forme di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP), entro un anno.

Alcune formule utilizzate dal legislatore di revisione costituzionale del Titolo V – come quella che attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali –, in tale ottica, apparivano attuali già al momento dell’analisi sui limiti del c.d. federalismo fiscale secondo le scelte accolte, prima, nella legge c.d. Calderoli (n. 42/2009) e successivamente, nei discussi indirizzi accolti nelle bozze di intesa fra alcune regioni (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) e lo Stato-Governo.

Rispetto alle molte questioni sollevate dal progetto governativo di ‘regionalismo differenziato’ (si era trattato invero di tre bozze di intesa stipulate fra Governo e tre regioni fiscalmente ricche del Paese), potremo ora limitarci ai soli profili relativi ai rapporti fra le nuove competenze riconosciute alle regioni e agli enti autonomi della Repubblica e la garanzia dei diritti di cittadinanza (unitaria e sociale) a livello interpersonale e interterritoriale.

L’analisi sul punto, così, non può non richiamare le stesse questioni poste dalle modalità previste dall’art. 119 Cost. (e della relativa legge di attuazione, n. 42 del 2009) per assicurare alle regioni e agli enti territoriali le risorse necessarie alla integrale copertura finanziaria necessarie all’esercizio delle “funzioni pubbliche loro attribuite” (art. 119, c. 4, Cost.). Tali competenze, invero, apparivano sguarnite da puntuali norme di garanzia, almeno relativamente ai contenuti essenziali della ‘perequazione finanziaria’, la quale, pertanto, sarebbe risultata di difficile giustiziabilità, venendo rimessa alla negoziazione politica all’interno della Conferenza Stato-Regioni, ovvero in altre istanze di concertazione politico-istituzionale istituite all’uopo. Una perequazione che, se individuata nella forma della sola redistribuzione compensativa, non avrebbe potuto porsi come garante della esigibilità dei livelli essenziali delle prestazioni relativi alla sanità, al sociale, alla scuola e al trasporto pubblico locale. Una garanzia – quest’ultima – pretesa dalla Costituzione (117, c. 2, lettera m; 119, c. 4) che fosse sinonimo di certezza di erogazione in favore della collettività; il tutto magari attraverso un percorso di solidarietà condizionata al conseguimento degli obiettivi di risanamento prestazionale e di rilancio dei territori (regioni) con minore capacità fiscale per abitante, beneficiari dell’intervento redistributivo.

Prima e dopo le iniziative (inizialmente meramente politiche) di attuazione del regionalismo differenziato (art. 116, c. 3, Cost.), in tale quadro, il profilo centrale del tema, così, a noi pare, innanzitutto, quello che porta ancora ad interrogarsi sul nuovo assetto delle competenze sancito dalla revisione costituzionale del Titolo V rispetto alla garanzia del principio di uguaglianza fra i cittadini e dei diritti di cittadinanza (unitaria e sociale), posti a fondamento della Repubblica.

In tale ottica, si osserva che la lettera m dell’art. 117, c. 2, della Costituzione non attribuisce alla legislazione esclusiva dello Stato la sola competenza a determinare i livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti sociali, estendendosi, con formulazione dalla natura certamente garantistica, anche ai diritti civili, di modo che i primi e i secondi siano “garantiti su tutto il territorio nazionale”.

Alcune considerazioni essenziali s’impongono per inquadrare tale centrale profilo che si pone come limite nell’attuazione delle previsioni costituzionali in materia di autonomia finanziaria di entrata e di spesa.

Diversamente da quanto previsto nel previgente ordinamento regionale, in tale ottica, il novellato Tit. V Cost. introduce un rapporto esplicito e diretto fra ‘nuovo’ regionalismo e novellate modalità di disciplina dei diritti sociali e civili (Ruggeri, 2001; Vandelli, 1999; Gambino, 2007 e 2009).

La quantità e la qualità della nuova allocazione delle competenze a livello regionale (che potrà ora ulteriormente ampliarsi alla luce dell’attuazione dell’art. 116, c. 3, Cost., secondo il quale “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia concernenti le materie … potranno essere attribuite ad altre Regioni”) – se non proprio ai sistemi federali – risulta potersi forse accostare a quella operata nelle Comunità autonome spagnole alla luce del ‘principio dispositivo’ ivi costituzionalmente disciplinato, differenziandosene, oltre che per la cornice costituzionale della forma di Stato, per le tecniche istituzionali dell’allocazione delle competenze e della relativa legislazione di attuazione. In questo senso può forse comprendersi – se non certo giustificarsi – l’enfasi che il mondo parlamentare ha evidenziato quando ha utilizzato il termine federalismo per inquadrare la revisione costituzionale del Titolo V (López Aguilar, 1999; Balaguer Callejón, 2014; Aja, 1999; Puzzo, 2002; Storini, 2002; Barceló, 1991; Cabellos Espiérrez, 2001; Alberti, 1995; Requejo, 1996; Blanco Valdés, 2008).

Nell’assegnare alla legislazione esclusiva dello Stato la materia/funzione della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, l’art. 117 (c. 2, lettera m) della novellata disposizione costituzionale, infatti, si prefigge di assicurare la garanzia del principio di uguaglianza di fronte alla legge – che deve intendersi, soprattutto, come uguaglianza di fronte alla Costituzione – su tutto il territorio nazionale.

Anche se in modo essenziale, in tale prospettiva, così, si impone una riflessione attenta sui rapporti fra autonomia regionale, diritti fondamentali e principi costituzionali di unità e indivisibilità della Repubblica.

Dopo la giurisprudenza costituzionale già richiamata, la faremo rievocando un indirizzo giurisprudenziale più recente della Corte costituzionale, relativo al giudizio di legittimità costituzionale delle leggi della Regione Veneto n. 15/2014 (Referendum consultivo sull’autonomia del Veneto) e n. 16/2014 (Indizione del referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto). In tale indirizzo giurisprudenziale (sent. cost. n. 118/2015), il Giudice delle leggi argomenta in modo risolutivo la sua censura con riguardo alla questione di legittimità promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri.

Due questioni allora sollevate appaiono richiamare molto da vicino questioni presenti anche nel presente dibattito pubblico (ma anche in quello politico, che coinvolge ancora una volta la Regione Veneto, ma non solo). La prima riguarda le scelte fondamentali di livello costituzionale accolte nelle leggi oggetto di impugnazione innanzi alla Corte che, secondo la giurisprudenza richiamata, devono assumersi precluse in quanto tali ai referendum regionali in ragione del loro suggerire “sovvertimenti istituzionali radicalmente incompatibili con i fondamentali principi di unità e indivisibilità della Repubblica, di cui all’art. 5 Cost.” (cons. dir. 7.2., sent. cost. n. 118/2015).

A garanzia di tali principi fondamentali dell’ordinamento repubblicano, la Corte non può non sottolineare come “L’unità della Repubblica è uno di quegli elementi così essenziali dell’ordinamento costituzionale da essere sottratti persino al potere di revisione costituzionale (sentenza n. 1146 del 1988)” (cons. dir. 7.2., sent. cost. n. 118/2015).

Quanto alla seconda questione – con una lettura conforme a Costituzione del quesito referendario oggetto del suo sindacato – la Corte assume che “così interpretato, il quesito referendario non prelude a sviluppi dell’autonomia eccedenti i limiti costituzionalmente previsti e pertanto, sotto questo profilo, la censura non è fondata”. In tal modo, peraltro, la Corte lascia ampio spazio alle regioni perché, nel rispetto dei richiamati principi costituzionali, possano svolgere compiutamente la loro autonomia.

Come si è già osservato, una simile lettura del Giudice costituzionale rileva anche nell’attualità con specifico riguardo alle iniziative politiche sostenute dagli ultimi governi in tema di ‘regionalismo differenziato’, ancorché non formalizzate in testi di legge, per come si è già osservato.

Per la Corte, se pure deve sottolinearsi come nel quesito referendario difettino richiami relativi agli ambiti di ampliamento dell’autonomia regionale su cui si intende interrogare gli elettori, “non è men vero, però, che il tenore letterale del quesito referendario ripete testualmente l’espressione usata nell’art. 116, terzo comma, Cost. e dunque si colloca nel quadro della differenziazione delle autonomie regionali prevista dalla disposizione costituzionale evocata; cosicché deve intendersi che le ‘ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia’ su cui gli elettori sono chiamati ad esprimersi possano riguardare solo le ‘materie di cui al terzo comma dell’art. 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), come esplicitamente stabilito nelle suddette disposizioni costituzionali” (sent. cost. n. 118/2015, cons. dir. 8.3).

Una eventuale questione di legittimità costituzionale rispetto ai dubbi sollevati da più parti relativamente alle ‘intese’ con lo Stato-Governo da parte delle tre Regioni interessate all’attuazione del regionalismo differenziato, come si osserva, potrebbe riguardare, al contempo, il parametro costituito dallo statuto regionale e soprattutto quello costituito dai principi costituzionali.

Mentre per le esigenze di questa riflessione può rinviarsi per uno specifico approfondimento al vaglio di quanto previsto in concreto da ogni singola intesa fra ognuna delle tre Regioni interessate e lo Stato/Governo, riteniamo di interesse generale (e risolutivo dei molti da più parti sollevati) l’indirizzo costituzionale che ha riguardo ai limiti posti dal rispetto dei principi costituzionali rilevanti nella materia che ora rileva nella presente analisi.

A giudizio della Corte, i dubbi di legittimità sollevati nei confronti della l.r. Veneto n. 15 del 2014 sono da ritenersi fondati nel loro delineare un assetto tributario regionale nel quale “i tributi riscossi sul territorio regionale, o versati dai ‘cittadini veneti’, sarebbero trattenuti almeno per l’ottanta per cento dalla Regione e, nella parte incamerata dalla ‘amministrazione centrale’, dovrebbero essere utilizzati almeno per l’ottanta per cento nel territorio regionale ‘in termini di beni e servizi’”.

Se, da una parte, i quesiti referendari oggetto di impugnazione alla Corte registrano un primo limite nel palese contrasto con la disciplina statutaria regionale in materia, dall’altra, non risulta meno incisiva “la violazione dei principi costituzionali in tema di coordinamento della finanza pubblica, nonché del limite delle leggi di bilancio, come interpretato dalla costante giurisprudenza di questa Corte in tema di referendum ex art. 75 Cost., valevole come canone interpretativo anche dell’analoga clausola statutaria” (sent. cost. n. 118/2015, cons. dir. 8.4).

Per la Corte, ne segue che “i quesiti in esame profilano alterazioni stabili e profonde degli equilibri della finanza pubblica, incidendo così sui legami di solidarietà tra la popolazione regionale e il resto della Repubblica”. Gli stessi non rilevano per la loro incidenza su singole manovre finanziarie o su misure nelle stesse previste quanto piuttosto su “alcuni elementi strutturali del sistema nazionale di programmazione finanziaria, indispensabili a garantire la coesione e la solidarietà all’interno della Repubblica, nonché l’unità giuridica ed economica di quest’ultima” (cons. in dir. 8.4, sent. cost. n. 118/2015), conseguendone che gli stessi “si pongono in contrasto con principi di sicuro rilievo costituzionale ed entrano nel cuore di una materia in cui lo stesso statuto regionale, in armonia con la Costituzione, non ammette referendum, nemmeno consultivi” (sent. cost. n. 118/2015, cons. dir. 8.4).

Tanto essenzialmente richiamato di un indirizzo quanto mai netto della Suprema Corte su tematiche di riforma, come si è detto, tuttora di estrema attualità nel Paese, possiamo tornare alla riflessione che era stata interrotta per dare spazio alla lettura dei principi fondamentali fattane dal Giudice delle leggi con specifico riguardo alle pretese ora accolte nel richiamato testo della intesa veneta (ma presenti anche in quella lombarda).

Nel tornare alla riflessione, deve osservarsi come il legislatore di revisione si sia comunque mosso in una cornice costituzionale nella quale si assume come definitivamente superato il risalente modello dell’uniformismo e del centralismo al quale ha corrisposto, nella prassi, una legislazione regionale sostanzialmente omologa. Rispetto ad un simile orizzonte, si ponevano (e tuttora si pongono fattualmente) come evenienze possibili la lesione del principio di eguaglianza dei cittadini (eguaglianza interpersonale) all’interno di ogni singola Regione ma (ora soprattutto) con riferimento al luogo di residenza (eguaglianza interterritoriale).

Mentre, rispetto alla prima richiamata situazione, potevano risultare bastevoli le previsioni costituzionali di divieto di discriminazione fra i soggetti (art. 3, c. 1, Cost.), al contrario, le eventuali diseguaglianze interterritoriali sarebbero risultate senza copertura costituzionale; ciò soprattutto in considerazione della realtà socio-politica del Paese, (tuttora) caratterizzata da una persistente ‘questione meridionale’, da intendersi come (non superato) divario socio-economico fra Nord e Sud del Paese.

È soprattutto rispetto a tale possibile diseguaglianza che costituisce garanzia dei diritti di cittadinanza (‘unitaria’ e ‘sociale’) la richiamata previsione di cui alla lettera m dell’art. 117, c. 2, Cost., nonché la previsione dell’ulteriore limite costituito dai ‘princìpi fondamentali’ riservati alla legislazione dello Stato con riferimento alle competenze concorrenti delle regioni (art. 117, c. 3, Cost.) ma da estendersi, sulla base di una lettura sistematica del testo costituzionale, anche a quelle residuali/esclusive delle stesse.

D’accordo con autorevole dottrina,11 deve osservarsi come non risulti convincente quella lettura che coglie nell’attuazione dell’art. 116, III co., Cost. una via per sottrarsi al rispetto dei “principi fondamentali” delle materie di competenza concorrente riservate alla legislazione esclusiva dello Stato.

Così, se alle possibili lesioni del principio di eguaglianza interpersonale e interterritoriale (anche in ragione delle previsioni di cui al novellato art. 116 Cost.) il legislatore di revisione costituzionale ha posto rimedio con le disposizioni di cui alla lettera m dell’art. 117, c. 2, Cost., e con i controlli sostitutori previsti nell’art. 120, c. 2, Cost., nella stessa ottica di garanzia (della cittadinanza ‘unitaria’ e ‘sociale’) si assume operante l’intero sistema dei ‘princìpi fondamentali’ (e fra questi, in particolare, il principio personalistico, quello solidaristico, di cui all’art. 2 Cost., e quello egualitario, di cui all’art. 3, commi 1 e 2) e delle disposizioni costituzionali in materia di diritti fondamentali, in quanto ‘patrimonio costituzionale’ indisponibile alla discrezionalità del legislatore (ordinario e regionale), come anche alla stessa revisione costituzionale, in ragione del suo costituire “principio supremo” dell’ordinamento costituzionale, secondo una risalente lettura del Giudice costituzionale (sent. cost. n. 1146 del 1988, cons. dir. n. 2.1.).

Nell’attuazione del principio di eguaglianza e di solidarietà, pertanto, alla ‘Repubblica’ (ora intesa, ai sensi dell’art. 114 Cost., come l’insieme pari ordinato costituzionalmente dei pubblici poteri, statali e territoriali) spetta di far valere, a titolo di solidarietà e di ‘coesione sociale’, tutte quelle garanzie che concorrono, con il principio di eguaglianza sostanziale, a superare le diseguaglianze originate nel sistema economico e sociale, rimuovendone gli squilibri e favorendo l’effettivo esercizio dei diritti della persona.

Al legislatore statale e regionale (e al rimanente sistema autonomistico della Repubblica), nell’esercizio dei poteri normativi di cui sono rispettivamente attributari in via costituzionale, e nel rispetto del principio di sussidiarietà e di leale collaborazione, compete di assicurare la tutela dell’‘unità giuridica’ e dell’‘unità economica’ (Rescigno, 2003; D’Aloia, 2003; Chieffi e Clemente di San Luca, 2004; Luciani, 2002; Groppi, 2002). Agli stessi soggetti compete, in particolare, la tutela dei ‘livelli essenziali delle prestazioni’ concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali, potendo lo Stato-Governo, in tal senso, sostituirsi agli organi delle regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni nelle ipotesi normative fissate in Costituzione (art. 120, c. 2) e nel rispetto delle procedure di legge relative a tale controllo sostitutorio (art. 8 della l. n. 131/2003).

Da una simile ri-lettura del testo (di revisione) costituzionale, se ne può concludere che, se pure, in via di principio, la previsione di cui all’art. 117 Cost., c. 2, lettera m, poteva non apparire strettamente necessaria ai fini della tutela dei diritti fondamentali costituzionali,12 tale disposizione costituzionale trova la sua motivazione nell’esigenza di rendere esplicito che il quadro costituzionale dei princìpi fondamentali non ha registrato modifiche sostanziali in tema di garanzie costituzionali accordate ai principi e ai diritti fondamentali (Allegretti, 1995; Spadaro, 1994; Ruggeri, 2003; Caretti, 2001; Caia, 2003; Anzon, 2002).

Tanto richiamato, può anche sottolinearsi come le questioni interpretative sollevate dal novellato testo costituzionale (art. 117, c. 2, lettera m, Cost.; art. 116, c. 3, Cost.) concernono non tanto la ratio delle richiamate disposizioni quanto piuttosto i relativi contenuti materiali, e quindi la tipologia dei diritti civili e sociali, da garantirsi su tutto il territorio nazionale nei ‘livelli essenziali’ delle relative prestazioni.

La legislazione ‘concorrente’ nelle nuove materie di cui risultano attributarie le Regioni (fra le altre, in materia di tutela della salute, istruzione, tutela e sicurezza del lavoro, valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione delle attività culturali) – significativamente implementate rispetto al previgente art. 117 Cost. –, quella derivante da ciò che potremmo chiamare il ‘principio dispositivo all’italiana’ (art. 116, c. 3, Cost.) e quella infine attribuita residualmente (si pensi, in tal senso, al rilievo centrale nelle politiche pubbliche locali della materia dell’assistenza sociale – diritto fondamentale sociale diffusamente eluso nella prassi attuativa –) dovrà esercitarsi – con le possibili differenziazioni di status delle Regioni medesime – senza mettere in questione lo ‘statuto della cittadinanza’, che dovrà restare ‘nazionale’ e ‘sociale’, assicurando, in tal modo, i livelli essenziali di prestazioni in materia di diritti civili e sociali, nonché l’inderogabilità dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale tra i soggetti e le diverse aree del Paese.

Come è stato già sottolineato, in tale ottica, il riparto operato dal legislatore di revisione costituzionale appare complesso, confuso e perfino “ingenuo” nella sua “pretesa” di fermare il moto irreversibile degli interessi a base dell’ordinamento. Ancora una volta, così, era (ed è) all’interprete e al Giudice delle leggi13 che occorreva (e occorre tuttora) rivolgersi al fine di poter comporre in un quadro di compatibilità costituzionali le opzioni differenziate (nel tempo e nello spazio) del legislatore statale e di quello regionale.

Quanto ai contenuti materiali dei livelli essenziali in materia di diritti (soprattutto ma non solo sociali), l’interpretazione dottrinaria dei contenuti materiali dell’art. 117 Cost. in materia di diritti (civili e sociali), tuttavia, rinvia a letture fra loro notevolmente differenziate, a seconda che prevalga o meno un orientamento (culturale e istituzionale) di discontinuità rispetto alla disciplina previgente (Balboni, 2003; Luciani, 2002; Pinelli, 2002; Rossi e Benedetti, 2002; Belletti, 2003; D’Aloia, 2003; Guiglia, 2007).

La questione nasce dall’individuazione dei limiti cui risulta sottoposta la potestà legislativa regionale concorrente – alla cui soluzione ha comunque provveduto in modo espresso il legislatore di revisione costituzionale quando ha limitato tale potestà con la determinazione (con legge dello Stato) di ‘princìpi fondamentali’ – ma soprattutto dalla risposta alle questioni circa l’estensione o meno di tale regime di vincoli alla stessa potestà legislativa ‘esclusiva’/‘residuale’ delle Regioni nonché, in futuro, ai vincoli delle materie riguardate dalle ‘intese’ sulle “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”.

Per chi scrive appare pienamente fondato, in tale ottica, quell’orientamento dottrinario che invoca la finalità garantistica di tutela del bene costituzionale dell’‘unità’, ed in particolare la protezione delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, a prescindere dai confini territoriali dei governi locali e dalle ‘ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia’, come titolo di legittimazione della potestà legislativa statale nel motivare l’eventuale intervento, oltre che attraverso ‘princìpi fondamentali’ anche attraverso una specifica disciplina, di natura trasversale, capace di penetrare nell’ambito regolativo della stessa potestà legislativa regionale (oltre che, naturalmente, in quella amministrativa).14

Come la Suprema Corte ha sottolineato con riguardo ai (già richiamati) rischi di sovvertimenti istituzionali connessi all’esercizio di referendum consultivi regionali radicalmente incompatibili con i fondamentali principi di unità e indivisibilità della Repubblica, di cui all’art. 5 Cost., “L’unità della Repubblica è uno di quegli elementi così essenziali dell’ordinamento costituzionale da essere sottratti persino al potere di revisione costituzionale (sentenza n. 1146 del 1988). Indubbiamente, come riconosciuto anche da questa Corte, l’ordinamento repubblicano è fondato altresì su principi che includono il pluralismo sociale e istituzionale e l’autonomia territoriale, oltre che l’apertura all’integrazione sovranazionale e all’ordinamento internazionale; ma detti principi debbono svilupparsi nella cornice dell’unica Repubblica: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali» (art. 5 Cost.)” (sent cost. n. 118/2015, cons. dir. 7.2) (Gambino, 2007).

Nel nuovo quadro costituzionale (letto anche nella prospettiva ora in considerazione di attuazione dell’art. 116, c. 3, Cost.), così, se per le regioni si aprono nuovi ambiti regolativi e di garanzia in ordine alla materia dei diritti (civili e sociali), al contempo, si conferma per lo Stato la competenza a intervenire in tale disciplina regionale sia attraverso la statuizione di ‘princìpi fondamentali’ della/e materia/e che attraverso regole legislative, gli uni e le altre, in ogni caso, rispettosi dei princìpi fondamentali costituzionali e fra essi in particolare, del principio di uguaglianza e di quello di solidarietà.

Pur potendo la riforma costituzionale apparire, in tal senso, come operante nel segno di una (sostanziale) continuità, l’angolo di osservazione dei diritti civili e sociali dischiude un quadro ordinamentale autonomistico indubbiamente valorizzato nell’ambito dei suoi poteri e fra questi – diversamente da quanto era previsto nel previgente ordinamento – da ambiti normativi che si estendono alla stessa materia dei diritti civili e sociali.

Tuttavia, tali poteri conoscono un limite negativo, nel senso che le regioni, sia nell’esercizio della potestà legislativa concorrente che in quella residuale/esclusiva, sia infine quella relativa all’esercizio delle competenze di cui alla procedura di cui all’art. 116, c. 3, Cost., devono conformarsi – oltre ai principi fondamentali costituzionali e alle relative disposizioni di garanzia degli articolati cataloghi di diritti fondamentali – ai ‘princìpi fondamentali delle materie’ fissati dal legislatore statale e alle stesse regole legislative statali poste a garanzia dei beni fondamentali di cui alla lettera m (Massa Pinto, 1995; Chessa, 1998; Giorgis, 1994).

Solo nel quadro di una lettura sistematica del rapporto fra forme di decentramento territoriale dei poteri e diritti, così, il rischio di uno “scivolamento verso il basso” dei contenuti della nuova disciplina delle prestazioni essenziali in materia di diritti civili e sociali, e con esso di un difficile limite da opporre all’“arbitrio delle maggioranze” (parlamentari e regionali) nel tempo, potrebbe, almeno astrattamente, ritenersi scongiurato.

Tale lettura può e deve farsi attingendo anche alle più avanzate (e motivate) interpretazioni della Costituzione, magis ut valeat, nonché alla stessa giurisprudenza costituzionale che, nelle tecniche giurisdizionali fin qui utilizzate, ha saputo dare prova di equilibrio (ma anche di prudenza) nel bilanciamento di beni costituzionali di volta in volta coinvolti nel processo costituzionale, comprensivo sia della necessaria gradualità nell’attuazione legislativa, sia dello stesso rispetto della discrezionalità del legislatore. D’altronde, non poteva essere altrimenti nel quadro di uno Stato caratterizzato da una Costituzione rigida, nel quale la materia dei ‘contenuti essenziali’ dei diritti fondamentali si ricollega in modo indissolubile a quella dei “princìpi supremi” e dei “diritti inviolabili”, come la giurisprudenza (soprattutto, ma non solo, nella sent. cost. n. 1146/1988) e la dottrina costituzionale concordemente assumono quando richiamano la sottrazione della relativa disciplina costituzionale allo stesso potere di revisione costituzionale. A fortiori al legislatore regionale (ordinario, speciale e in futuro, forse anche, differenziato).

IV. ALCUNE RIFLESSIONI DI SINTESI SULLE PROBLEMATICHE ATTUATIVE IN TEMA DI REGIONALISMO DIFFERENZIATO

Senza scendere in questa sede ad una analisi molto approfondita, così, si tratta di prospettare gli interrogativi che devono essere posti relativamente ai rapporti fra forme istituzionali (vecchie e nuove) del decentramento territoriale e problematiche di compatibilità dell’esercizio dei poteri pubblici ai diversi livelli territoriali con i princìpi costituzionali posti a fondamento dello Stato costituzionale contemporaneo (artt. 1-13, tit. V Cost.) (Pastore, 2019; Mangiameli, 2023; Lollo, 2023). Fra gli altri, il principio di eguaglianza (formale e sostanziale), quello personalistico e di solidarietà, nella loro natura di principi fondamentali, assiologici dell’intero ordinamento repubblicano, e che, in quanto tali, si estendono come limite alle autonomie territoriali nella concretizzazione dei relativi poteri.

Questi stessi principi informano di sé l’intera architettura repubblicana (sia prima che dopo la revisione costituzionale del Titolo V, negli anni 1999/2001), portando ad interrogarsi su ambiti e limiti del regionalismo inteso non come mera riorganizzazione sussidiaria fra centro e periferia delle competenze statali quanto piuttosto in termini di effettività dei diritti (civili e sociali), prescindendo dai confini territoriali dei governi regionali e locali (Gambino, 2023b; Ronchetti, 2023). Un tema – quest’ultimo – che da almeno una metà di secolo è al centro dell’analisi costituzionalistica ma anche, come si è ricordato, di non insignificanti tentativi di lacerazione del tessuto economico e sociale del Paese, che hanno portato a galla una gracilità di fondo del processo di unificazione politica (quasi 160 anni orsono), proponendosi come una ‘questione meridionale’ non solo non risolta, semmai aggravata nei suoi contorni economici e sociali rispetto ad una ‘questione settentrionale’, pure esistente ma dai contenuti profondamente diversi dalla prima. Una questione di dualismo territoriale che era partita (Lega di Bossi) con la minaccia politica di secessione di parti del territorio del Paese (la inesistente Padania), era proseguita (legge c.d. Calderoli) con una (solo apparente) maggiore ragionevolezza nell’adozione della legge n. 42/2009 (nella quale, se venivano tutelati i livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali positivizzati nell’art. 117, c. 2, lettera m, della Costituzione, continuavano comunque a restare senza la integrale copertura del finanziamento pubblico le rimanenti funzioni dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Regioni) (Viesti, 2019 e 2022).

L’analisi delle relazioni esistenti fra forma di Stato e diritti (soprattutto ma non solo sociali), così, rileva soprattutto per le problematiche costituzionali relative alla eguaglianza delle condizioni di vita dei cittadini, che concretizzano lo ‘statuto della cittadinanza’ (unitaria e sociale), secondo una formula invalsa nell’analisi costituzionale e in quella politica. La Corte costituzionale, come si è accennato, ha confermato pienamente tale assunto con un indirizzo giurisprudenziale chiaro e stabile nel tempo. Già a partire dai primi anni ’70 del secolo passato, il Giudice delle leggi aveva avuto modo di affermare che “il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. consente al legislatore ordinario di dettare norme differenziate per disciplinare situazioni ritenute obiettivamente e ragionevolmente diverse” (sent. cost. n. 57 del 1967). In questa direzione, la Corte costituzionale estendeva l’applicazione del principio di uguaglianza anche alla normativa statale concernente le Regioni (sent. cost. n. 87 del 1992).

Naturalmente, l’eguaglianza può convivere con forme di organizzazione statale che prevedono asimmetrie e differenziazioni nelle forme di distribuzione territoriale delle competenze purché siano fatti salvi i princìpi e le disposizioni costituzionali in materia di diritti fondamentali. È appunto il caso della previsione costituzionale, in Italia, accanto alle Regioni a statuto ordinario, di Regioni a statuto speciale, il cui statuto, come si ricorda, è approvato con legge costituzionale, nonché di una ulteriore differenziazione in ragione di quanto si prevede nel novellato art. 116, c. 3, Cost., alle stringenti procedure e vincoli ivi sanciti.

Se si fa salva la specialità prevista per le (cinque) regioni a statuto speciale, inoltre, può osservarsi che, nel fondo, le regioni ordinarie (e le autonomie locali) hanno registrato linee evolutive ispirate ad un sostanziale uniformismo e ad una differenziazione debole nei relativi contenuti competenziali e organizzativi.

In una simile cornice politica e istituzionale, occorre porsi quegli interrogativi essenziali che da sempre vengono sollevati quando si riflette sui rapporti fra le forme istituzionali concrete del decentramento territoriale e le problematiche della loro compatibilità con i princìpi costituzionali posti a fondamento dello Stato costituzionale repubblicano. Per quanto riguarda il sistema regionale e locale, si tratta, come noto, degli artt. 1-13 e dell’intero Tit. V Cost. Ai fini di questa riflessione, fra di essi, riveste un ruolo centrale il principio di eguaglianza (formale e sostanziale), il principio personalista e il principio di solidarietà, posti nel loro insieme alla base della Costituzione repubblicana come principi fondamentali (fondanti e assiologici) dell’intero ordinamento repubblicano.

In quanto tali, pertanto, essi si estendono – segnandone il limite non eludibile – alle autonomie territoriali nella concreta estrinsecazione dei loro poteri e dunque, per quanto ora si vuole sottolineare, nella concreta relazione (da prevedersi in sede di attuazione delle procedure attuative dell’art. 116, c. 3, Cost. in tema di ‘regionalismo differenziato’) fra la distribuzione territoriale delle competenze, l’esercizio dell’autonomia di entrata e di spesa da parte degli enti territoriali e la perequazione delle risorse finanziarie (con particolare riguardo alle regioni fiscalmente deboli).

Tale principio è chiamato ad assicurare che l’autonomia territoriale consentita dalla (appena richiamata) previsione costituzionale non si possa tradurre nella limitazione delle prestazioni legislative e amministrative relative ai diritti fondamentali (sociali ma non solo) dei cittadini, a prescindere dal loro territorio di residenza. Si richiamano in tale ottica, in particolare (ma l’elenco è meramente indicativo), il diritto alla salute, il diritto alla istruzione, il diritto al lavoro, il diritto alla assistenza sociale e alla previdenza, il diritto all’esistenza libera e dignitosa, che costituiscono i pilastri dello Stato sociale di diritto, nonché attuazioni obbligatorie del principio di eguaglianza (art. 3, c. 2, Cost.) e del principio solidaristico (art. 2 Cost.) (Gambino, 2023a).

Tali principi, unitamente a tutti gli altri accolti nella rubrica costituzionale dei Principi fondamentali (artt. 1/12 Cost.), informano di sé l’intera architettura costituzionale repubblicana (sia prima che dopo la revisione costituzionale del Titolo V, intervenuta negli anni 1999/2001), portando ad interrogarsi in modo problematico sugli ambiti e sui limiti del regionalismo inteso non come mera riorganizzazione (secondo una logica funzionalistica) delle competenze statali fra centro e periferia quanto piuttosto in termini di effettività dei diritti (civili e sociali), prescindendo dai confini territoriali dei governi regionali e locali. Un tema – quest’ultimo – che, a partire dalla riforma del Tit. V Cost., avevamo ritrovato al centro del dibattito pubblico e dell’analisi costituzionalistica in occasione della stagione di approvazione degli statuti regionali ma anche in seguito con riguardo alla giurisprudenza costituzionale in tema di competenza degli statuti regionali nella materia dei diritti fondamentali e dei principi fondamentali accolti negli statuti.

Da almeno un ventennio, come si è ricordato, tale tema si pone alla base di non banali rischi di di lacerazione del tessuto politico/sociale del Paese, che hanno portato a galla, come si è già ricordato, una gracilità di fondo del processo di unificazione politica del Paese (quasi 160 anni orsono), che ha assunto le forme di una non superata ‘questione meridionale’.

La legge sul federalismo fiscale (legge n. 42/2009), con le sue poche luci e le molte ombre, in questo senso, può essere ora nuovamente richiamata, sia pure nei suoi principi essenziali (Lucarelli, 2010; Mone, 2010). Se riguardata rispetto alle (già richiamate) minacce secessive, come non era scontato che accadesse negli anni di turbolenza politica in cui fu approvata, deve osservarsi come quel testo legislativo (cui in ogni caso le maggioranze parlamentari nel tempo hanno fatto mancare la piena attuazione) si faceva comunque carico di tutelare i ‘livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali’. Rispetto a tale profilo, pertanto, la legge si presentava rispettosa delle previsioni di cui all’art. 117, c. 2, lettera m, e all’art. 120, c. 2 della Costituzione. Nella stessa, tuttavia, sarebbero rimaste senza la ‘integrale copertura’ finanziaria le funzioni pubbliche attribuite ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni, per come previsto dall’art. 119, c. 4, Cost.; per tale ragione non poteva che cogliersene il contrasto con lo spirito e il testo della Costituzione.

Nella Costituzione repubblicana, come è noto, sussiste una relazione molto stretta fra modello di ‘Stato sociale’ ed effettività dei diritti (sociali, ma non solo). In altri termini, in tale forma di Stato, il legislatore statale e quello regionale non possono esercitare la loro funzione legislativa omettendo di legiferare quando la Costituzione lo preveda o perfino adottando decisioni legislative in contrasto con le previsioni costituzionali in tema di Principi fondamentali (artt 1-12) e di diritti fondamentali (civili e sociali).

Le eventuali omissioni del legislatore e la violazione dei principi fondamentali della Costituzione e delle disposizioni in tema di diritti fondamentali conoscono la censura costituita dal sindacato di costituzionalità della Corte (ma da tempo la giurisprudenza costituzionale in tema di omissione del legislatore appare piuttosto sfuggente). Non deve omettersi di richiamare come il testo costituzionale preveda procedure di controllo della costituzionalità delle leggi interne alla Camere (che tuttavia risultano in concreto) condizionate nel quadro di un parlamentarismo divenuto nel tempo ‘maggioritaristico’.

Da qui la stretta relazione che non può non riguardare il presente legislatore in tema di ‘regionalismo differenziato’ al momento di interrogarsi se le proprie scelte di riorganizzazione delle competenze legislative fra Stato e Regioni (e fra le Regioni riguardate dall’attuazione dell’art.116, c. 3, Cost.) appaiono capaci di assicurare, all’interno di ogni singola regione e nelle altre regioni, la pienezza della tutela costituzionale assicurata ai livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali.

Lo ‘statuto di cittadinanza’, pertanto, costituisce il limite non aggirabile del processo legislativo di attuazione dell’art. 116, c. 3, Cost. avviato da parte delle tre richiamate regioni (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna) ed ora riassunte come impegno politico nel programma dell’(odierno) Governo Meloni.

La formula utilizzata dal legislatore di revisione costituzionale nell’art. 116, c. 3, Cost. appare solo parzialmente sovrapponibile a quella utilizzata dal testo costituzionale nell’art. 116, c. 1, ove, al contempo, ritroviamo positivizzata la previsione delle cinque regioni attributarie della specialità costituzionale (Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige/Südtirol e Valle d'Aosta/Vallée d’Aoste) e del relativo regime, per il quale le stesse dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale.

Per le ‘altre’ regioni, ora riguardate dalla previsione costituzionale del novellato art. 116 Cost. – sussistendone i presupposti costituzionali e nel rispetto della procedura ivi sancita – esse possono attivarsi per conseguire “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” ma il loro ambito risulta comunque costituzionalmente delimitato alle materie di cui al terzo comma dell'articolo117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s). Tali materie possono costituire oggetto di riallocazione (dallo Stato alle Regioni interessate) sulla base di una legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.

La procedura per pervenire al regionalismo differenziato, così, ribadisce il limite del rispetto dei principi sanciti nell’art. 119 Cost., come, più in generale, per l’intero ordinamento repubblicano, permangono i limiti costituiti dal rispetto dei principi fondamentali e dalla tutela della effettività dei diritti fondamentali della persona.

Accanto al riassetto delle materie di legislazione concorrente e in parte anche di legislazione esclusiva (le materie indicate dal secondo comma dell’art. 117 alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), l’approccio obbligato da seguire per accostarsi alle problematiche del federalismo (fiscale) e a quelle del regionalismo differenziato, pertanto, come si sta osservando, è quello che mette al centro dell’analisi i rapporti fra federalismo/regionalismo e diritti di cittadinanza.

Rispetto a tali rapporti, acquistano indiscutibile centralità le risorse necessarie all’esercizio delle competenze riconosciute alle regioni, sguarnite da espresse norme costituzionali di garanzia, almeno relativamente alla ‘perequazione finanziaria’ e a quella infrastrutturale (art. 119, c. 5, Cost.), che per questo risulterà difficilmente giustiziabile restando affidata alla negoziazione politica all’interno della Conferenza Stato-Regioni. Una perequazione che, se individuata nella forma della sola redistribuzione compensativa, non potrà porsi come garante della esigibilità dei livelli essenziali delle prestazioni afferenti la sanità, il sociale, la scuola e il trasporto pubblico locale. Garanzia – questa – pretesa dalla Costituzione (art. 117, c. 2, lettera m; art. 119, c. 3).

Il profilo centrale del tema (ieri, con riguardo alla legge sul federalismo fiscale, oggi, con riguardo al regionalismo differenziato), pertanto, è rappresentato dall’interrogativo (e dalle relative risposte) che riguarda/no la compatibilità del nuovo assetto delle competenze regionali risultanti dalla procedura seguita (art. 116, c. 3, Cost.) con la garanzia del principio di eguaglianza fra i cittadini e, con esso, della garanzia dei diritti di cittadinanza (unitaria e sociale).

Nell’assegnare alla legislazione ‘esclusiva’ dello Stato la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, la disposizione costituzionale prima richiamata (art. 117, c. 2, lettera m, Cost.) mira a garantire la garanzia del principio di eguaglianza di fronte alla legge “su tutto il territorio nazionale”.

Rispetto a tale previsione costituzionale, si ponevano, dunque, e tuttora si pongono (fattualmente) come evenienze possibili la lesione del principio di eguaglianza dei cittadini all’interno di ogni singola Regione ma (soprattutto) con riferimento al luogo di residenza.

È soprattutto rispetto a tale possibile diseguaglianza che costituisce garanzia dei diritti di cittadinanza la richiamata previsione costituzionale, nonché quella dell’ulteriore limite costituito dai ‘principi fondamentali riservati alla legislazione dello Stato’ con riferimento ai limiti posti alle competenze concorrenti (ma anche a quelle esclusive) delle Regioni. Tematica – questa – che risulterà indubbiamente fondamentale nell’ottica delle garanzie giurisdizionali nei confronti delle asimmetrie competenziali che potrebbero essere previste nel quadro del regionalismo differenziato (e per esso con riguardo ai contenuti delle ‘intese’ fra singola regione e Governo) rispetto ai principi costituzionali di garanzia.

Nell’attuazione del principio di solidarietà, in tale prospettiva, alla ‘Repubblica’ spetta di far valere, a titolo di solidarietà e di ‘coesione sociale’, tutte quelle garanzie che concorrono, con il principio di eguaglianza sostanziale, a superare le diseguaglianze originate nel sistema economico e sociale, rimuovendone gli squilibri e favorendo l’effettivo esercizio dei diritti della persona.

Al legislatore (statale e regionale) e al rimanente sistema autonomistico della Repubblica, nell’esercizio dei poteri normativi di cui sono rispettivamente attributari in via costituzionale, compete la tutela dei LEP concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali.

V. CONCLUSIONI

Se ne può concludere che tale disposizione costituzionale trova la sua motivazione nell’esigenza di rendere esplicito che il quadro costituzionale dei princìpi fondamentali non ha registrato fin qui (come non era comunque ipotizzabile nel quadro di un costituzionalismo di tipo rigido) modifiche di pregio né potranno essere introdotti nuovi regimi legislativi nel riparto competenziale che mettano in questione un simile assetto.

In tale ottica, l’ordinamento costituzionale, come è noto, registra i limiti – pienamente costituzionalizzati nell’art. 117, c. 1, Cost. – posti dal rispetto della Costituzione, dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Può ora sottolinearsi come le questioni (di interpretazione) sollevate dal nuovo titolo V Cost. rispetto agli indirizzi legislativi intentati (regionalismo differenziato e federalismo fiscale) non concernono tanto la mera ratio delle richiamate disposizioni quanto piuttosto i relativi contenuti materiali, e quindi la tipologia dei diritti civili e sociali, da garantirsi su tutto il territorio nazionale. La legislazione ‘concorrente’ nelle nuove materie di cui risultano attributarie le Regioni (soprattutto tutela della salute, istruzione, tutela e sicurezza del lavoro) e quella attribuita residualmente (in particolare, assistenza sociale) dovrà esercitarsi senza mettere in questione lo ‘statuto della cittadinanza’, che dovrà restare ‘nazionale’ e ‘sociale’, assicurando, in tal modo, i LEP in materia di diritti civili e sociali. Ciò che costituisce limite per lo Stato nella garanzia dello ‘statuto di cittadinanza’, naturalmente costituisce limite anche nel rapporto con le altre regioni che perseguano la procedura della intesa di cui all’art. 116, c. 3, Cost.

In conclusione, così, siamo in presenza di un nuovo quadro costituzionale, nel quale si è aperto per le Regioni un nuovo ambito regolativo e di garanzie in ordine alla materia dei diritti ma, al contempo, si è confermata per lo Stato la competenza a intervenire in tale disciplina regionale, sia attraverso la statuizione di ‘princìpi fondamentali’ della materia che attraverso regole legislative (sia pure non di dettaglio). Tali parametri sono garantiti dalla Corte costituzionale, al fine di evitare che eventuali ‘eccentricità’ legislative da parte di qualche Regione si ponga in modo lesivo con riguardo al rispetto dei beni costituzionali (più volte richiamati) ad essa indisponibili.

Quanto ai profili relativi al nuovo regime dell’autonomia finanziaria territoriale sancito dall’art. 119 Cost., anch’esso pone significative questioni con riguardo ai rapporti fra decentramento territoriale e principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.

La nuova ‘costituzione finanziaria’ del Paese, invero, non definisce puntualmente le relazioni finanziarie tra i diversi livelli di governo, limitandosi a regolarli in via di principio e riservando alla legislazione statale la competenza esclusiva in materia di ‘armonizzazione dei bilanci pubblici’ e di ‘perequazione delle risorse finanziarie’.

L’art. 119 Cost., in tale prospettiva, costituzionalizza il principio della territorialità dell’imposta. Ciascuna Regione, in questa ottica, finanzia integralmente le funzioni pubbliche ad essa attribuite con tributi ed entrate proprie, mediante compartecipazioni al gettito di tributi erariali “riferibili al loro territorio”, nonché mediante il fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, volto a perequare le differenti capacità fiscali interterritoriali (soprattutto per i territori con minore capacità fiscale per abitante).

Gli effetti redistributivi del disegno costituzionale di finanza regionale, tuttavia, suscitano (e susciteranno ancor più in sede di attuazione delle procedure di cui all’art. 116, c. 3, Cost.) interrogativi, posto che, pur prevedendosi meccanismi perequativi (indefiniti nell’entità e nel peso specifico e fin qui non ancora disciplinati in via legislativa), non è assente un possibile, concreto, rischio di ulteriore polarizzazione tra aree territoriali fiscalmente “ricche” e “povere” (e tra le tre regioni interessate dalla procedura dell’intesa e tutte le altre aree regionali), che può incrementare il grado di diseguaglianza fra regioni e fra persone.

Il testo dell’art. 119 Cost., inoltre, prevede l’attribuzione dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa ai Comuni, alle Province e alle Regioni, i quali “stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri” sia pure nel rispetto della disposizione costituzionale in materia di “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”. Accanto a tali flussi, esso individua, inoltre, l’istituzione di “un fondo perequativo senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Con tale disposizione di chiusura, stabilisce che i flussi finanziari derivanti da risorse autonome (tributi propri e compartecipazioni) e dal fondo perequativo consentono alle autonomie territoriali di “finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite” (art. 119, c. 4, Cost.).

Rimane chiaro che il profilo tributario dell’autonomia regionale deve, in ogni caso, informarsi al principio generale dell’unità dell’ordinamento e ai principi stabiliti con legge statale in ordine alla configurazione dei tributi (in base alle riserve di legge di cui agli artt. 2, 23 e 53 Cost.), mentre alle Regioni, oltre al concorso nelle decisioni politico-legislative, spetta il disegno di un “sistema tributario” – da definire con legge regionale – ovvero di “stabilire e applicare tributi ed entrate propri”.

Per finalità costituzionali, e comunque per scopi “diversi dal normale esercizio delle loro funzioni”, il legislatore costituzionale con la nuova formulazione ha inoltre previsto la possibilità per lo Stato di destinare “risorse aggiuntive” e di effettuare “interventi speciali” (art. 119, c. 5, Cost.) a favore di enti territoriali, qualora ricorrano determinate condizioni, mentre nel previgente testo potevano assegnarsi a singole Regioni dei “contributi speciali” finalizzati “a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole”. Alla luce di tali disposizioni, assume rilievo primario la corrispondenza tra le funzioni esercitate dalle autonomie territoriali e la dotazione di risorse necessarie a finanziarle, in ragione della rottura del principio del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative.

Se dall’analisi giuridica relativa ai rapporti fra decentramento territoriale delle competenze statale e garanzia dei diritti fondamentali ci concentriamo, in modo conclusivo, sul dibattito politico-istituzionale (federalismo fiscale ieri, regionalismo differenziato oggi), può condividersi la preoccupazione di chi ha fatto osservare come ogni discorso sul federalismo fiscale, ieri, e sul regionalismo differenziato, attualmente, sia caratterizzato da un tecnicismo che ne ostacola la piena comprensione, assumendosi in tal senso la ragionevolezza di quell’orientamento che ha sottolineato come, nel fondo, il discorso sul c.d. federalismo fiscale e quello sul regionalismo asimmetrico inizierà a divenire credibile solo quando la maggioranza (di governo) inizierà a misurarsi sul tema “tabelle alla mano” e comunque nel rispetto dei principi fondamentali della Carta.

A fronte dei limiti registrati nell’attuazione della legge sul federalismo fiscale (l. n. 42/2009) e del dibattito svolto fin qui sul regionalismo differenziato, è da osservarsi come esso pare ancora troppo connotato da un tasso di eccessivo simbolismo e di retoricità e comunque ancora poco approfondito rispetto agli obiettivi attesi della riforma fiscale/regionale e (della coscienza della esistenza) dei connessi limiti costituzionali.

D’altra parte, deve anche sottolinearsi come risulti del tutto discutibile ipotizzare il successo di un preteso modello federale nel quadro di un sistema politico regionale/locale (che era e permane in gran parte) debole. D’altra parte, non si può negare il fascino argomentativo per talune regioni (Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna), consistenti nella sottolineatura di una relazione molto stretta fra decentramento, sussidiarietà delle funzioni pubbliche e modernizzazione amministrativa. Una relazione che assegnava al federalismo fiscale, ieri, e al regionalismo differenziato, oggi, l’idoneità a realizzare una migliore efficienza amministrativa e che fa chiaramente aggio sull’egoismo fiscale di tali territori (quelli fiscalmente ricchi). Si tratta però, anche in questo caso, di discuterne l’attendibilità a fronte di una forma di Stato che, in ogni caso, è chiamata ad assicurare a tutti cittadini, a prescindere dal territorio in cui gli stessi risiedono, servizi pubblici idonei a garantire i relativi diritti fondamentali.

L’alternativa al criterio della spesa storica nella riorganizzazione del sistema fiscale del Paese in tali testi di riforma (fiscale e regionale) sarebbe stata quello del fabbisogno del sistema regionale e di quello autonomistico, da valutare in base ad una nuova misurazione dei costi, di tipo standard e non più a piè di lista ovvero di spesa storica. Tuttavia, sul punto, mancano dati comparativi idonei a supportare valutazioni di merito e decisioni (governative e parlamentari). Quanto al Parlamento, nell’attuazione del disegno di legge di attuazione dell’art. 116, c, 3, della Costituzione, come è noto, è risultato perfino messo in questione il relativo potere di partecipare alla discussione sulla modifica delle intese convenute fra singola Regione e Governo.

A noi pare che lo scenario delineato dai due testi Calderoli (sul federalismo fiscale e sul regionalismo differenziato) appaia destinato, in modo inevitabile, ad una sua riscrittura da parte della Corte costituzionale volta ad assicurarne la relativa conformità alla Costituzione, allo stato quanto mai incerta (soprattutto con riguardo al vulnus del principio di eguaglianza e a quello di solidarietà che appare particolarmente evidente nel testo di legge Calderoli di attuazione dell’art. 116, c. 3, della Carta, in tema di ‘regionalismo differenziato’).

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Nota

1 Pastore, 2019; Girotto, 2019; Violini, 2021.

2 Groppi e Olivetti, 2003; Gambino, 2021b.

3 Poggi e Sobrino, 2021; Luciani, 2022; Gambino, 2022.

4 Gambino, 2021a.

5 Ddl cost. n. 1825, presentato al Senato il 22 maggio 2020.

6 Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare. Modifica dell’art. 116, comma 3, e dell’art. 117, commi 1, 2 e 3 della Costituzione, promossa dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale.

7 Ddl Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione (2 febbraio 2023).

8 Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella Prolusione al Convegno Anci, Bergamo, 22-24 novembre 2022.

9 Viesti, 2023.

10 Luciani, 1994. In modo molto diverso cfr. Lozano Miralles, 2020.

11 Elia, 2008.

12 Nel novellato ordinamento regionale e locale, come si è detto e come la Corte costituzionale ha più volte sottolineato, trovano applicazione i princìpi fondamentali posti a tutela dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica e le relative garanzie costituzionali.

13 In merito, in part., la giurisprudenza sull’attrazione in sussidiarietà, di cui alla sent. cost. 303/2003.

14 Ex multis, sentt. cost. n. 222/2003; n. 259/2004, n. 407/2002; n. 282/2002.

Author notes

* Catedrático de Derecho Constitucional Comparado

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Cómo citar : Gambino, S. (2024). Il regionalismo differenziato: l’attuazione dell’art. 116, comma 3 della Costituzione italiana, fra principi costituzionali e diritti di cittadinanza. Revista Estudios Jurídicos. Segunda Época, 24, e8612. https://doi.org/10.17561/rej.n24.8612

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Revista de Estudios Jurídicos
ISSN: 1576-124X

Num. 24
Año. 2024

IL REGIONALISMO DIFFERENZIATO: L’ATTUAZIONE DELL’ART. 116, COMMA 3 DELLA COSTITUZIONE ITALIANA, FRA PRINCIPI COSTITUZIONALI E DIRITTI DI CITTADINANZA

Silvio Gambino
Universidad de Calabria,Italia
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