Riforma regionale, tutela della salute, Corte costituzionale. L’esperienza italiana alla luce delle revisioni costituzionali (del 1999/2001)

Silvio Gambino

Riforma regionale, tutela della salute, Corte costituzionale. L’esperienza italiana alla luce delle revisioni costituzionali (del 1999/2001)

Revista de Estudios Jurídicos, no. 22, 2022

Universidad de Jaén

Reforma del sistema regional, protección de la salud y Tribunal Constitucional. La experiencia italiana a la luz de las revisiones constitucionales (1999/2001)

Regional system reform, health protection and Constitutional Court. The Italian experience under constitutional revisions (1999/2001)

Silvio Gambino *

Universidad de Calabria, Italia


Received: 20/January /2022

Accepted: 07/March /2022

Riassunto: Il dibattito politico-costituzionale sul regionalismo italiano, soprattutto nell’ultimo ventennio, si connota per il consolidamento delle esigenze dell’autonomia territoriale (soprattutto ma non solo regionale) e della relativa conformazione all’art. 5 e all’intero Titolo V della Costituzione. Rispetto a tale quadro il lavoro svolto ricostruisce le più recenti tendenze – e le connesse problematiche politico-costituzionali – che hanno preceduto e accompagnato le più recenti riforme costituzionali, con particolare riguardo ai rapporti fra autonomia regionale, diritti fondamentali e princìpi costituzionali di unità e indivisibilità della Repubblica. Le tematiche della differenziazione territoriale e le connesse problematiche di riparto territoriale delle competenze (fra Stato e Regioni, nonché fra competenze esclusive dello Stato, concorrenti e residuali delle regioni), in tale prospettiva, sono analizzate con particolare riguardo alle nuove modalità di allocazione regionale delle competenze in materia di tutela della salute e di assistenza sociale – diritti ambedue fondamentali secondo la Costituzione repubblicana – per come innovativamente disciplinate nelle revisioni costituzionali più recenti (1999/2001) e alla luce della lettura che ne ha fatto nel tempo il Giudice delle leggi italiano.

Parole Chiave: Riforma regionale; diritto alla salute e all’assistenza sociale; giurisprudenza costituzionale.

Resumen: El debate político-constitucional sobre el regionalismo italiano, especialmente en los últimos veinte años, se caracteriza por la consolidación de las necesidades de autonomía territorial (sobre todo, pero no sólo regional) de conformidad con el art. 5 y el Título V de la Constitución. En este marco, se reconstruyen las tendencias más recientes -y los problemas político-constitucionales conexos- que precedieron y acompañaron a las últimas reformas constitucionales, con especial atención a las relaciones entre autonomía regional, derechos fundamentales y principios constitucionales de unidad e indivisibilidad de la República. Las cuestiones de diferenciación territorial y los problemas conexos de distribución territorial de competencias (entre el Estado y las Regiones, así como entre las competencias exclusivas del Estado, concurrentes y residuales de las regiones), en esta perspectiva, se analizan con especial atención a los nuevos métodos de atribución autonómica de competencias en el campo de la protección de la salud y la asistencia social -ambos derechos fundamentales según la Constitución republicana- tal como se disciplinan de forma innovadora en las más recientes reformas constitucionales (1999/2001) y a la luz de la lectura del juez constitucional.

Palabras clave: Reforma regional; derecho a la salud y asistencia social; jurisprudencia constitucional.

Abstract: The political-constitutional debate on Italian regionalism, especially in the last twenty years, is characterized by the consolidation of the needs of territorial autonomy (especially but not only regional) and its conformation to art. 5 and Title V of the Constitution. The work reconstructs the most recent trends - and the related political-constitutional problems - which preceded and accompanied the most recent constitutional reforms, with particular regard to the relationships between regional autonomy, fundamental rights and constitutional principles of unity and indivisibility of the Republic. The issues of territorial differentiation and the connected problems of territorial distribution of competences (between the State and the Regions) are analyzed with particular regard to the new regional allocation of competences in the field of health protection and social assistance - both fundamental rights according to the Republican Constitution - as innovatively disciplined in the most recent constitutional revisions (1999/2001) and the Constitutional Court doctrine.

Keywords: Regional reform; right to health and social assistance; constitutional jurisprudence.

Sommario

I. Il principio di eguaglianza come limite alla differenziazione territoriale? Riflessioni costituzionalistiche su diritti inviolabili e territori. II. Rapporti fra autonomia regionale, diritti fondamentali e princìpi costituzionali di unità e indivisibilità della Repubblica. La lettura del Giudice delle leggi. III. Alcune riflessioni sulle problematiche costituzionali sollevate dal (più recente) indirizzo politico-legislativo in tema di regionalismo ‘differenziato’. IV. Riforme del regionalismo, tutela della salute e Giudice delle leggi. 1. Il diritto alla salute fra tutele dell’art. 32 Cost. e riparto competenziale del novellato titolo V Cost. fra (competenza legislativa esclusiva dello) Stato e (competenza concorrente e residuale delle) Regioni. 2. Il diritto alla salute fra ‘livelli essenziali delle prestazioni’ e sua giustiziabilità. 3. Salute e assistenza sociale fra diritti (esigibili) e politica (politiche sociali). Alcuni cenni. 4. Riparto territoriale delle competenze in materia sanitaria e problematiche (irrisolte) di coordinamento. Recenti indirizzi giurisprudenziali del Giudice delle leggi. V. Bibliografía.

I. IL PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA COME LIMITE ALLA DIFFERENZIAZIONE TERRITORIALE? RIFLESSIONI COSTITUZIONALISTICHE SU DIRITTI INVIOLABILI E TERRITORI

Le tematiche (della effettività) dei diritti e del regionalismo, ordinario e ‘differenziato’, soprattutto nell’ultimo ventennio, hanno registrato l’attenzione della dottrina giuridica del Paese come, più in generale, di quella europea. In questa prospettiva si collocano le (limitate) riflessioni che seguono, incentrate sull’analisi delle complesse questioni poste in particolare dai rapporti fra principio di uguaglianza e principio di autonomia territoriale, nel quadro più ampio dei vincoli posti dai princìpi costituzionali relativi ad una forma di Stato unitaria a base sociale, come quella italiana secondo la Costituzione repubblicana.In tale prospettiva, le riflessioni che seguono saranno destinate ad affrontare alcune delle questioni poste dai rapporti fra principio di uguaglianza e principio di autonomia territoriale e più in generale quelle poste dal welfare sanitario e socio-assistenziale nel contrasto (in corso da un biennio) alla pandemia da Covid-19. Sia, infatti, che si pensi (come taluni assumono) a una formulazione simil-federalistica della forma di Stato emersa dalle revisioni costituzionali degli ultimi anni ’90, sia che si faccia riferimento ad essa come meramente volta al rafforzamento del regionalismo accolto nella Costituzione del ’47, il tema centrale rimane quello della (riforma di tale) forma di Stato (unitaria e sociale), rispetto a quella liberal-democratica delle origini. All’interno di tale forma di Stato rilevano in particolare i contenuti materiali e gli stessi limiti all’autonomia territoriale, la relativa idoneità, cioè, a riguardare lo stesso ambito dei diritti (in modo anche eventualmente asimmetrico rispetto alla relativa disciplina delle competenze (legislative e statutarie) in materia nelle diverse regioni (Ruggeri, 2011, 2012; Mangiameli, 2002; Gambino, 2021). Pur considerando le parabole evolutive registrate da tale esperienza statuale nel settantennio post-costituzionale, è in tale prospettiva che si è inteso proporre l’interrogativo sui limiti costituzionali posti al legislatore (ordinario e regionale) dai vincoli positivizzati costituzionalmente e in particolare dai vincoli posti dal principio di uguaglianza; un interrogativo – questo – che non si ispira certo a formule uniformistiche nell’assetto dei poteri che prescindano dalle esigenze dei territori e dalle culture dei suoi residenti.

In una essenziale premessa al tema che si vuole ora affrontare, si ricorda come tale riflessione incroci nel suo percorso argomentativo molti altri dibattiti: quello sul regionalismo politico (con le relative continuità e discontinuità rispetto al federalismo), quello sul federalismo fiscale1 e, più in generale, quello sulla titolarità della “sovranità” nelle formule statuali moderne e contemporanee; una sovranità che, ricorrentemente, ma irragionevolmente, viene pretesa da parte di alcuni territori regionali (al pari di quanto è dato osservare nella stessa esperienza europea, come ora in Spagna). In ragione di tale pretesa, il tema ha fatto registrare, in modo per così dire inevitabile, ricorsi reiterati e conseguenti interventi del Giudice delle leggi, indirizzati di norma nel senso della censura di tali pretese ritenute incompatibili con le esigenze unitarie della forma statuale unitaria. In tale prospettiva, una questione era stata già sollevata, più di un decennio fa, con riguardo al dubbio di legittimità di una “Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo” (1.r. Sardegna n. 7/2006), nel quale si prevedevano (art. 2.2.a) “idonee forme per promuovere i diritti dei cittadini sardi in relazione a condizioni connesse con la specificità dell’isola” (sent. n. 365/2007). L’interrogativo, invero, potrebbe anche essere proposto in termini più generali, interrogandosi sulla spettanza del principio di sovranità in uno Stato a base regionale e sulle necessarie, relative, differenziazioni con gli Stati federali. In tale quadro, ci si può chiedere, così, se il principio di uguaglianza, oltre a costituire un diritto fondamentale, inderogabile, dei cittadini, non costituisca anche un principio essenziale – parimenti inderogabile in ciò che si assume come essenziale – di articolazione dello stesso pluralismo istituzionale, senza il cui riconoscimento non sarebbe possibile l’esistenza stessa dello Stato costituzionale e il riparto territoriale dei poteri dallo stesso disciplinato. Nel vaglio della richiamata questione di legittimità costituzionale, la Corte non ha avuto dubbi di pregio, risolvendo la questione sottopostale e facendo giustizia di ogni astratto ‘nominalismo’ di chi, nel quadro delle tensioni simil-federalistiche osservabili in alcune aree del Paese, invoca in modo irragionevole terminologie ascrivibili a modelli statuali federali o perfino confederali. In tal senso, così, la Corte osserva in modo deciso come “il dibattito costituente … fu assolutamente fermo nell’escludere concezioni che potessero anche solo apparire latamente riconducibili a modelli di tipo federalistico o addirittura di tipo confederale ... Pretendere ora di utilizzare in una medesima espressione legislativa, quale principale direttiva dei lavori di redazione di un nuovo statuto speciale, sia il concetto di autonomia sia quello di sovranità equivale a giustapporre due concezioni tra loro radicalmente differenziate sul piano storico e logico … di cui la seconda certamente estranea alla configurazione di fondo del regionalismo quale delineato dalla Costituzione e dagli Statuti speciali” (sent. cost. n. 365/2007, cons. dir. 7).2 Da tale lettura della Corte volta soprattutto ad inquadrare la vigente forma di Stato del Paese, sul versante dei diritti ne segue che i soggetti dell’ordinamento statale sono tutti i cittadini il cui insieme costituisce il ‘popolo’, mentre i soggetti dell’ordinamento regionale sono i residenti, il cui insieme costituisce la ‘popolazione’ (di cui agli artt. 132 e 133 Cost.). In tale quadro, “il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. esclude che possano attribuirsi tutele e posizioni differenziate in ragione delle diverse etnie ... Lo stesso territorio regionale non può configurarsi come luogo della sovranità regionale, entro il quale sia esercitabile uno ius excludendi alios, giusta la disposizione dell’art. 16 Cost.” (sent. n. 365/2007). Una volta assunta la centralità di tale principio come coessenziale allo Stato democratico e costituzionale, si tratta di cogliere quanto della sua essenzialità possa rendersi disponibile alle esigenze poste dal principio di autonomia territoriale (e alle stesse sue esigenze di differenziazione, tanto delle Regioni speciali prima, quanto di quelle differenziate ora, qualora l’art. 116, III co., Cost. registri piena attuazione, come ancora non può dirsi al momento della redazione di questo scritto), con la connessa titolarità, da parte delle Regioni e delle autonomie locali, della potestà di dotarsi di un indirizzo politico-legislativo proprio (se parliamo delle Regioni) e di un indirizzo amministrativo proprio se invece ci riferiamo agli enti autonomi della Repubblica), l’uno e l’altro, in ogni caso, da esercitarsi nel rispetto dei princìpi di unità giuridica ed economica dell’ordinamento repubblicano e dei princìpi fondamentali (delle materie regionali di competenza legislativa concorrente) riservati alla legislazione esclusiva dello Stato.

Le esigenze poste dal diritto costituzionale e, più in particolare, dal carattere inviolabile e inderogabile dei diritti fondamentali (in particolare dei diritti sociali, per quanto ora si vuole sottolineare), in tale quadro, portano a sottolineare come, in uno Stato costituzionale, la diversità (asimmetria competenziale) conosce il limite inderogabile dell’eguaglianza. Nessuna diversità, in tale ottica, dovrebbe (deve) giustificare la compressione (se non perfino il sacrificio) dell’uguaglianza in ciò che della stessa risulta sostanziale. Detto in altri termini, con riguardo al tema ora in esame, il diritto alla differenziazione– in base al quale la posizione giuridica dei soggetti potrebbe differenziarsi nelle varie regioni nei termini delle differenziate forme di esercizio delle competenze legislative (e amministrative) – non può estendersi all’ambito dei diritti e dei doveri costituzionali. In tale àmbito, come aveva lucidamente sottolineato Joaquin Garcìa Morillo, “l’uguaglianza deve essere assoluta; non vi può essere differenziazione nel godimento dei diritti fondamentali o nell’adempimento dei doveri costituzionali” (García Morillo, 1998).

Con riguardo a tale tematica, vi è un ulteriore profilo da richiamare, la cui discussione appare necessaria nell’ottica di un’analisi approfondita del tema richiamato nella complessa cornice del regionalismo del Paese. In proposito, si ricorda come, al fine di garantire i valori e i princìpi accolti nel ‘patto costituzionale’ stipulato fra le forze costituenti, l’ordinamento costituzionale italiano aveva sancito una serie di valori e di princìpi costituzionali che si ponevano nei confronti del legislatore futuro come limite invalicabile allo stesso potere di revisione costituzionale. Unitamente al principio democratico e a quello di sovranità popolare, si tratta, in primis, del principio di centralità della persona umana e di quello ad esso strettamente connesso dell’eguaglianza formale e sostanziale dei soggetti, da realizzarsi con misure comunque idonee ad assicurare un particolare favor ai ‘soggetti deboli’. Accanto al riconoscimento e alla protezione delle classiche libertà negative, e accanto a una generale rivisitazione delle libertà economiche nel senso della ‘funzionalizzazione’ (se mai fosse consentito di utilizzare una simile terminologia quando si parla di diritti) del relativo esercizio ai ‘fini sociali’ fissati dal legislatore nel tempo, tali princìpi trovano nella positivizzazione costituzionale di cataloghi di diritti fondamentali lo strumento formale di garanzia, cui si riconnette strettamente lo stesso principio di unità e di indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.), relativo al riconoscimento e alla promozione delle autonomie locali, nonché all’intero Titolo V Cost.

Nell’ottica di questa premessa al tema, pertanto, le considerazioni richiamate sottolineano come la Costituzione non possa rendere negoziabile la discussione sulla inderogabilità dei princìpi supremi e dei diritti fondamentali dell’ordinamento costituzionale, il cui mantenimento risulta essenziale – come si fa bene osservare – “per la conservazione della stessa identità dell’ordine costituzionale vigente, sicché l’eliminazione di quei princìpi determinerebbe allo stesso tempo la distruzione dell’intera Costituzione e la sua sostituzione con un ordine costituzionale completamente diverso” (Luciani, 2011).

La Corte costituzionale ha confermato in modo reiterato tale statuto dei diritti inviolabili cogliendoli come limiti impliciti alla revisione della Costituzione. Dopo alcune importanti pronunce nel corso degli anni ’60 e ’70, lo aveva fatto in particolare, in forma più organica e solenne con la sent. n. 1146 del 1988. In tale pronuncia, la Corte affermava, infatti, che “la Costituzione italiana contiene taluni princìpi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali”. Tale concetto veniva ribadito successivamente – come si osserverà anche in seguito – con una non sufficientemente richiamata giurisprudenza in tema di referendum consultivo, in merito alla presentazione di proposte di legge costituzionale (per l’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia alla Regione Veneto che ne aveva fatto richiesta). Per il Giudice delle leggi, nel riconoscere uno spazio alla iniziativa popolare regionale, in tal senso, non è difficile rendersi conto come tale proposta di legge finisse con il negare il principio unitario a base dell’ordinamento “quasi che nella nostra Costituzione, ai fini della revisione, non esistesse un solo popolo, che dà forma all’unità politica della Nazione e vi fossero invece più popoli... Non è quindi consentito sollecitare il corpo elettorale regionale a farsi portatore di modificazioni costituzionali, giacché le regole procedurali ed organizzative della revisione, che sono legate al concetto di unità e indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost. e art. 117, I co.), non lasciano alcuno spazio a consultazioni popolari regionali che si pretendano manifestazione di autonomia” (sent. n. 496/2000). Lo snodo fondamentale rimane, così, ancora una volta, quello dei rapporti fra unità politico-giuridica della Nazione, forme della distribuzione territoriale del potere (anche eventualmente asimmetriche, come si osserverà in seguito, nell’ottica della previsione di “ulteriori forme e condizioni particolare di autonomia”, ai sensi dell’art. 116, III co., Cost.) e diritti di cittadinanza (‘unitaria’ e ‘sociale’). Solo a partire da un simile approccio, infatti, si è in grado di indagare se l’indagine e la valutazione delle soluzioni perseguite dal legislatore di revisione e dal legislatore (statale e regionale) non degradino nella mera prospettiva di un regionalismo (più o meno latamente) funzionalista, ma parta, s’ispiri e si radichi nell’armonia dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica (princìpi – questi ultimi –, come si è ricordato, indisponibili alla stessa revisione costituzionale), cui l’ordinamento costituzionale assegna la funzione di tutela del ‘nucleo duro’ del patrimonio costituzionale, individuabile appunto nei princìpi e nei diritti fondamentali per come positivizzati nell’ordinamento costituzionale.

In una valutazione di sintesi di quanto fin qui osservato sullo spazio definitorio occupato dai diritti fondamentali nell’ambito della forma di Stato unitaria a base regionale, può così osservarsi come una riflessione attenta alle filosofie istituzionali sottese al dibattito costituzionale in materia di diritti fondamentali e di forma di Stato consente di sottolineare come il costituente, prima, e il legislatore di revisione costituzionale, successivamente, nella distribuzione dei poteri e delle responsabilità istituzionali fra centro e periferia, hanno assegnato allo Stato, nelle sue istanze centrali, la funzione di garanzia dei diritti negativi (giurisdizione, legislazione, sicurezza giuridica, ecc.), mentre, per quanto concerne i diritti positivi (diritti sociali), hanno assegnato alle regioni competenze eminentemente attuative, volte ad assicurare l’erogazione delle prestazioni legislative e amministrative, comunque nel rispetto dei princìpi e delle disposizioni costituzionali relative a tali diritti, nonché delle stesse forme della partecipazione dei destinatari dell’attività amministrativa (Ex multis, Gambino, 2015).

Nei rapporti fra autonomia territoriale, regionalismo e (effettività dei) diritti, in tale ottica, l’esperienza italiana evidenzia, tuttavia, la perdita di un’occasione. In altri termini, le regioni non hanno costituito quella opportunità di avvicinare la funzione pubblica al cittadino, né l’occasione per rendere maggiormente effettivo, sussidiario, e partecipato, l’esercizio di quelle competenze costituzionali assegnate al livello regionale, in modo da rendere maggiormente effettivo (ed anche efficace) il modello di decentramento politico-istituzionale. Discorso omologo dovrebbe anche farsi per quanto concerne quei diritti c.d. della ‘terza generazione’, come, ad es., il diritto all’ambiente salubre, la tutela del territorio e delle persone dagli inquinamenti, ecc., per i quali sempre più evidente appare lo scarto fra aspettative sociali (interessi diffusi) ed esercizio responsabile delle competenze in materia ambientale e urbanistica da parte del sistema regionale e degli enti locali.

La tematica dei diritti fondamentali nello Stato regionale secondo quanto previsto nell’originaria formulazione del Titolo V Cost., così, non pare aver offerto una prospettiva teorica di particolare pregio; né, invero, il livello regionale aveva consentito di evidenziare, nella prassi, profili attuativi delle competenze regionali idonei ad influenzare positivamente l’effettività dei diritti sociali. Quest’ultima si limitava, così, alle funzioni svolte in tema di garanzia e di effettività degli stessi da parte del giudice ordinario ma soprattutto da parte di quello costituzionale. L’ordinamento costituzionale italiano non si preoccupa di disciplinare in modo omologo tale materia, in ragione della natura propria della sua forma di Stato che, in presenza della costituzionalizzazione del principio autonomistico, assegna alle Regioni competenze legislative (e amministrative) in materie enumerate nei limiti dei princìpi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale o con quello di altre Regioni (art. 117 Cost., testo originario). Tali princìpi – in uno Stato a Costituzione rigida – limitavano la potestà legislativa (esclusiva e concorrente) nel suo concreto esercizio. Di tal ché, non appariva necessario positivizzare con altre disposizioni l’inderogabilità di princìpi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, che così si sottraevano, per come già rilevato, allo stesso potere di revisione costituzionale.

II. RAPPORTI FRA AUTONOMIA REGIONALE, DIRITTI FONDAMENTALI E PRINCÌPI COSTITUZIONALI DI UNITÀ E INDIVISIBILITÀ DELLA REPUBBLICA. LA LETTURA DEL GIUDICE DELLE LEGGI

In un simile quadro di riforme, anche solo a muovere dalla più recente evoluzione del sistema regionale-locale, fino ai più recenti indirizzi legislativi segnati dalla legge n. 56/2014 (legge Delrio), così, appare opportuno soffermare l’attenzione sui più recenti indirizzi di attuazione costituzionale (art. 116, III co. Cost.), ancorché, allo stato, non concretizzati in un testo legislativo. In tale ottica, siamo chiamati a riflettere sul progetto politico del Governo ‘Conte 1’, del ‘Governo Conte 2’ e del ‘Governo Draghi’ in tema di ‘regionalismo differenziato’3 (– in realtà, si era trattato, nella prima ipotesi normativa, di un progetto patrocinato da una soltanto delle due componenti di quella compagine di Governo, quella leghista, che si richiamava al Ministro Salvini, mentre nella seconda previsione, si trattava di un testo che non aveva conseguito l’accordo all’interno della maggioranza di governo del tempo –), sottolineandone in particolare i limiti con riguardo alle relative problematiche di conformazione ai princìpi costituzionali (principio unitario e di solidarietà, vincoli – questi ultimi – posti alla distribuzione territoriale delle competenze statali sulla base del principio di eguaglianza interterritoriale e interpersonale).

Alcune formule utilizzate dal legislatore di revisione costituzionale del Tit. V – come quella che attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato la determinazione dei “livelli essenziali” delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 117, II co., lettera m, Cost.) –, in tale ottica, erano apparsi attuali già al momento di riflettere sui limiti (anche costituzionali) della legge di attuazione del c.d. federalismo fiscale secondo le scelte accolte, prima, nella legge n. 42/2009 (legge cd Calderoli) e successivamente, nei discussi indirizzi accolti nelle bozze di intesa fra le regioni Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e lo Stato-Governo.

Rispetto alle molte questioni sollevate dal richiamato progetto governativo in tema di ‘regionalismo differenziato’ (si era trattato, per come già osservato, di tre bozze di intesa stipulate fra Governo e tre regioni fiscalmente ricche del Paese), potremo limitare la riflessione ai soli profili relativi ai rapporti fra le nuove competenze riconosciute alle regioni e agli enti autonomi della Repubblica e la garanzia dei diritti di cittadinanza (unitaria e sociale) a livello interpersonale e interterritoriale (cfr. Gambino, 2013, 2014a, 2018b, 2019b, 2020, 2021a.). L’analisi in materia deve inevitabilmente richiamare le stesse questioni poste dalle modalità previste dall’art. 119 Cost. (e della relativa legge delega di attuazione, n. 42 del 2009) per assicurare alle regioni e agli enti territoriali le risorse necessarie alla integrale copertura finanziaria necessarie all’esercizio delle “funzioni pubbliche loro attribuite” (art. 119, IV co., Cost.) (cfr. Gambino, 2009b; Massa Gallerano, 2020). Tali competenze, invero, apparivano prive di puntuali norme di garanzia, almeno relativamente ai contenuti essenziali della ‘perequazione finanziaria’, la quale, pertanto, alla luce di quella disciplina di attuazione costituzionale, sarebbe risultata di difficile giustiziabilità, venendo rimessa alla negoziazione politica all’interno della Conferenza Stato-Regioni, ovvero in altre istanze di concertazione politico-istituzionale istituite all’uopo. Una perequazione che, se individuata nella forma della sola redistribuzione compensativa, non avrebbe potuto porsi come garante della esigibilità dei livelli essenziali delle prestazioni relativi alla sanità, al sociale, alla scuola e al trasporto pubblico locale. Una garanzia – quest’ultima – pretesa dalla Costituzione (117, II co., lettera m; 119, IV co.), che fosse sinonimo di certezza di erogazione in favore della collettività; il tutto magari attraverso un percorso di solidarietà condizionata al conseguimento degli obiettivi di risanamento prestazionale e di rilancio dei territori (regioni) con minore capacità fiscale per abitante, beneficiari dell’intervento redistributivo.

Prima e dopo le iniziative (allo stato solo politiche, per come già osservato) di attuazione del regionalismo differenziato (art. 116, III co., Cost.), in tale quadro, il profilo centrale del tema appare, innanzitutto, quello che porta ancora ad interrogarsi sul nuovo assetto delle competenze sancito dalla revisione costituzionale del Titolo V rispetto alla garanzia del principio di uguaglianza fra i cittadini e dei diritti di cittadinanza (unitaria e sociale), posti a fondamento della Repubblica. In tale ottica, si deve sottolineare come la lettera m dell’art. 117, II co., della Costituzione non attribuisca alla legislazione esclusiva dello Stato la sola competenza a determinare i livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti sociali estendendosi, con formulazione dalla natura indubbiamente garantistica, anche ai diritti civili, di modo che i primi e i secondi siano “garantiti su tutto il territorio nazionale”.

Alcune considerazioni essenziali s’impongono per inquadrare tale centrale profilo che si pone come limite nell’attuazione delle previsioni costituzionali in materia di autonomia finanziaria di entrata e di spesa. Diversamente da quanto previsto nel previgente ordinamento regionale, in tale ottica, il novellato Tit. V Cost. introduce un rapporto esplicito e diretto fra ‘nuovo’ regionalismo e novellate modalità di disciplina dei diritti sociali e civili (Vandelli, 1999; Pizzetti, 2004; Ruggeri, 2001). La quantità e la qualità della nuova allocazione delle competenze a livello regionale (che potrà ora ulteriormente ampliarsi alla luce dell’attuazione dell’art. 116, III co., Cost. – secondo il quale “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia concernenti le materie … potranno essere attribuite ad altre Regioni”) – se non proprio ai sistemi federali, risulta comparabile a quella operata nelle Comunità autonome spagnole alla luce del ‘principio dispositivo’ operante in quell’ordinamento costituzionale, differenziandosene, oltre che per la cornice costituzionale della forma di Stato, per le tecniche istituzionali dell’allocazione delle competenze e della relativa legislazione di attuazione. In questo senso – se non certo giustificarsi – può forse comprendersi l’enfasi cui aveva fatto ricorso il mondo politico e quello parlamentare quando avevano utilizzato (enfaticamente) il termine federalismo per inquadrare la revisione costituzionale del Titolo V.

Nell’assegnare alla legislazione esclusiva dello Stato la materia/funzione della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, l’art. 117 (II co., lettera m) della novellata disposizione costituzionale, infatti, si prefigge di assicurare la garanzia del principio di uguaglianza di fronte alla legge – che deve intendersi, soprattutto, come uguaglianza di fronte alla Costituzione – su tutto il territorio nazionale. L’intento richiamato in precedenza di una riflessione sui rapporti fra autonomia regionale, diritti fondamentali e princìpi costituzionali di unità e indivisibilità della Repubblica, in tale ottica, appare sostanziale. Dopo la giurisprudenza costituzionale prima richiamata, potremo farlo rievocando un indirizzo giurisprudenziale della Corte costituzionale – tuttora di attualità – relativo al giudizio di legittimità costituzionale delle leggi della Regione Veneto n. 15/2014 (Referendum consultivo sull’autonomia del Veneto) e n. 16/2014 (Indizione del referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto). In tale indirizzo (sent. cost. n. 118/2015), il Giudice delle leggi argomenta in modo risolutivo la sua censura con riguardo alla questione di legittimità promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri. Due questioni allora sollevate, infatti, appaiono richiamare molto da vicino questioni presenti anche nel presente dibattito pubblico (ma anche in quello politico, che coinvolge ancora una volta la Regione Veneto, ma non solo). La prima riguarda le scelte fondamentali di livello costituzionale accolte nelle leggi oggetto di impugnazione innanzi alla Corte che, secondo la giurisprudenza richiamata, dovevano assumersi precluse in quanto tali ai referendum regionali in ragione del loro suggerire “sovvertimenti istituzionali radicalmente incompatibili con i fondamentali principi di unità e indivisibilità della Repubblica, di cui all’art. 5 Cost.” (cons. in dir. 7.2., sent. cost. n. 118/2015). A garanzia di tali principi fondamentali dell’ordinamento repubblicano, la Corte non poteva che sottolineare come l’unità della Repubblicacostituisca “uno di quegli elementi così essenziali dell’ordinamento costituzionale da essere sottratti persino al potere di revisione costituzionale (sentenza n. 1146 del 1988)” (cons. in dir. 7.2., sent. cost. n. 118/2015). Quanto alla seconda questione, con una lettura conforme a Costituzione del quesito referendario oggetto del suo sindacato, la Corte assumeva che “così interpretato, il quesito referendario non prelude a sviluppi dell’autonomia eccedenti i limiti costituzionalmente previsti e pertanto, sotto questo profilo, la censura non è fondata”. In tal modo, peraltro, la Corte lasciava pieno spazio alle regioni perché nel rispetto dei richiamati princìpi costituzionali potessero svolgere più compiutamente la propria autonomia.

Come si è osservato, una simile lettura del Giudice costituzionale rileva anche nell’attualità con riguardo specifico alle fattispecie osservabili nelle iniziative politiche sostenute dal ‘Governo Conte 1’ in tema di ‘regionalismo differenziato’, ancorché, a suo tempo, non formalizzate in testi di legge, per come si è già osservato. Allo stato il Governo Draghi non ha avanzato formali proposte in tal senso, ma è convinzione diffusa nella dottrina che si occupa del tema che l’interesse delle Regioni del Nord-Est stia trovando una interlocuzione (‘sottotraccia’) con il Governo; ne segue che l’analisi non può che prenderne atto, sia pure con più di una preoccupazione. Per la Corte, se pure, da una parte, deve sottolinearsi come nel quesito referendario difettassero richiami relativi agli ambiti di ampliamento dell’autonomia regionale su cui si intendeva interrogare gli elettori, “non è men vero, però, che il tenore letterale del quesito referendario ripete testualmente l’espressione usata nell’art. 116, terzo comma, Cost. e dunque si colloca nel quadro della differenziazione delle autonomie regionali prevista dalla disposizione costituzionale evocata; cosicché deve intendersi che le ‘ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia’ su cui gli elettori sono chiamati ad esprimersi possano riguardare solo le ‘materie di cui al terzo comma dell’art. 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), come esplicitamente stabilito nelle suddette disposizioni costituzionali” (cons. in dir. 8.3, sent. cost. n. 118/2015).

Una eventuale questione di legittimità costituzionale rispetto ai dubbi sollevati da più parti relativamente alle intese con lo Stato-Governo da parte delle tre Regioni interessate all’attuazione del regionalismo differenziato, come si osserva, potrebbe riguardare, al contempo, il parametro costituito dallo Statuto regionale e soprattutto quello costituito dai princìpi fondamentali. Mentre per le esigenze della presente riflessione potrebbe rinviarsi per uno specifico approfondimento al vaglio di quanto previsto in concreto da ogni singola intesa fra ognuna delle tre Regioni interessate e Stato/Governo, può assumersi come di interesse generale e risolutivo dei molti dubbi da più parti sollevati l’indirizzo costituzionale che ha riguardo ai limiti posti dal rispetto dei princìpi costituzionali rilevanti nella materia che ora rimarca nella presente analisi. A giudizio della Corte, i dubbi di legittimità sollevati nei confronti della l.r. Veneto n. 15 del 2014 sono da ritenersi fondati nel loro delineare un assetto tributario regionale nel quale “i tributi riscossi sul territorio regionale, o versati dai ‘cittadini veneti’, sarebbero trattenuti almeno per l’ottanta per cento dalla Regione e, nella parte incamerata dalla ‘amministrazione centrale’, dovrebbero essere utilizzati almeno per l’ottanta per cento nel territorio regionale ‘in termini di beni e servizi’”. Se, da una parte, i quesiti referendari oggetto di impugnazione alla Corte registrano un primo limite nel palese contrasto con la disciplina statutaria regionale in materia, dall’altra, non risulta meno incisiva “la violazione dei principi costituzionali in tema di coordinamento della finanza pubblica, nonché del limite delle leggi di bilancio, come interpretato dalla costante giurisprudenza di questa C orte in tema di referendum ex art. 75 Cost., valevole come canone interpretativo anche dell’analoga clausola statutaria” (cons. in dir. 8.4, sent. cost. n. 118/2015). Ne segue – per la Corte – che “i quesiti in esame profilano alterazioni stabili e profonde degli equilibri della finanza pubblica, incidendo così sui legami di solidarietà tra la popolazione regionale e il resto della Repubblica”. Gli stessi non rilevano per la loro incidenza su singole manovre finanziarie o su misure nelle stesse previste quanto piuttosto su “alcuni elementi strutturali del sistema nazionale di programmazione finanziaria, indispensabili a garantire la coesione e la solidarietà all’interno della Repubblica, nonché l’unità giuridica ed economica di quest’ultima” (cons. in dir. 8.4, sent. cost. n. 118/2015), conseguendone che gli stessi “si pongono in contrasto con principi di sicuro rilievo costituzionale ed entrano nel cuore di una materia in cui lo stesso statuto regionale, in armonia con la Costituzione, non ammette referendum, nemmeno consultivi” (cons. in dir. 8.4, sent. cost. n. 118/2015).

Tanto essenzialmente richiamato di un indirizzo quanto mai netto della Suprema Corte su tematiche di riforma tuttora, come si è detto, di attualità nel dibattito politico e istituzionale del Paese, possiamo ritornare alla riflessione che era stata interrotta per dare spazio alla lettura dei princìpi fondamentali fattane dal Giudice delle leggi con specifico riguardo alle pretese accolte nelle richiamate Intese (veneta, lombarda ed emiliana). Nel ripensare a tale riflessione, deve osservarsi come il legislatore di revisione si sia comunque mosso in una cornice costituzionale nella quale si assume come definitivamente superato il risalente modello dell’uniformismo e del centralismo al quale ha corrisposto, nella prassi, una legislazione regionale sostanzialmente omologa. Rispetto ad un simile orizzonte, si ponevano (e si pongono tuttora, fattualmente) come evenienze possibili la lesione del principio di eguaglianza dei cittadini (eguaglianza interpersonale) all’interno di ogni singola Regione ed (ora soprattutto) con riferimento al luogo di residenza (eguaglianza interterritoriale). Mentre, rispetto alla prima richiamata situazione, potevano risultare bastevoli le previsioni costituzionali di divieto di discriminazione fra i soggetti (art. 3, I co., Cost.), al contrario, le eventuali diseguaglianze interterritoriali sarebbero risultate senza copertura costituzionale; ciò soprattutto in considerazione della realtà socio-politica del Paese, (tuttora) caratterizzata da una persistente ‘questione meridionale’, da cogliere come (non superato) divario socio-economico fra Nord e Sud del Paese.

È soprattutto rispetto a tale possibile diseguaglianza che costituisce garanzia dei diritti di cittadinanza (‘unitaria’ e ‘sociale’) la richiamata previsione di cui alla lettera m dell’art. 117, II co., Cost., nonché la previsione dell’ulteriore limite costituito dai ‘princìpi fondamentali’riservati alla legislazione dello Stato con riferimento alle competenze concorrenti delle regioni (art. 117, III co., Cost.) ma da estendersi, sulla base di una lettura sistematica del testo costituzionale, anche a quelle residuali/esclusive delle stesse.

D’accordo con la preoccupata analisi di una autorevole dottrina,4 in tema, si osserva come non risulti convincente quella lettura che coglierebbe nell’attuazione dell’art. 116, III co., Cost. una discutibile via per sottrarsi al rispetto dei ‘princìpi fondamentali’ delle materie di competenza concorrente riservati alla legislazione dello Stato. Una simile lettura, infatti, rischierebbe di assegnare all’autonomia regionale differenziata uno spazio normativo che l’art. 116, I co, Cost. non riconosce alle stesse Regioni a statuto speciale e che, invero, la stessa prassi regionale delle Regioni a statuto speciale non è parso rivendicare.

Pertanto, se alle possibili lesioni del principio di eguaglianza interpersonale e interterritoriale (anche in ragione delle previsioni di cui al novellato art. 116 Cost.) il legislatore di revisione costituzionale ha posto rimedio con le disposizioni di cui alla lettera m dell’art. 117, II co., Cost., e con i controlli sostitutori previsti nell’art. 120, II co., Cost., nella stessa ottica garantistica (della cittadinanza ‘unitaria’ e ‘sociale’) deve assumersi operante l’intero sistema dei ‘princìpi fondamentali’ (e fra questi, in particolare, il principio personalistico, quello solidaristico, di cui all’art. 2 Cost., e quello egualitario, di cui all’art. 3, commi 1 e 2) e delle disposizioni costituzionali in materia di diritti fondamentali, in quanto ‘patrimonio costituzionale’ indisponibile alla discrezionalità del legislatore (statale e regionale), come anche alla stessa revisione costituzionale, in ragione del suo costituire “principio supremo” dell’ordinamento costituzionale, secondo una risalente lettura del Giudice costituzionale (sent. cost. n. 1146 del 1988, cons. dir. n. 2.1.).

Nell’attuazione del principio di eguaglianza e di solidarietà, pertanto, alla ‘Repubblica’ (ora intesa, ai sensi dell’art. 114 Cost., come l’insieme pari ordinato costituzionalmente di tutti i pubblici poteri, statali e territoriali) spetta di far valere, a titolo di solidarietà e di ‘coesione sociale’, tutte quelle garanzie che concorrono, con il principio di eguaglianza sostanziale, a superare le diseguaglianze originate nel sistema economico e sociale, rimuovendone gli squilibri e favorendo l’effettivo esercizio dei diritti della persona. Al legislatore statale e regionale (e al rimanente sistema autonomistico della Repubblica), nell’esercizio dei poteri normativi di cui sono rispettivamente attributari in via costituzionale, e nel rispetto del principio di sussidiarietà e di leale collaborazione, compete di assicurare la tutela dell’‘unità giuridica’ e dell’‘unità economica’. Agli stessi soggetti compete, in particolare, la tutela dei ‘livelli essenziali delle prestazioni’ concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali, potendo lo Stato-Governo, in tal senso, sostituirsi agli organi delle regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni nelle ipotesi normative fissate in Costituzione (art. 120, II co.) e nel rispetto delle procedure di legge relative a tale controllo sostitutorio (art. 8 della l. n. 131/2003) (D’Atena, 2003; Scaccia, 2004; Salerno, 2004; Giuffré, 2003).

Da una simile lettura del novellato testo costituzionale, ne segue che, se pure, in via di principio, la previsione di cui all’art. 117 Cost., II co., lettera m, poteva non apparire strettamente necessaria ai fini della tutela dei diritti fondamentali costituzionali (– nel novellato ordinamento regionale e locale, come si è osservato e come la Corte costituzionale ha più volte sottolineato, trovano applicazione i princìpi fondamentali posti a tutela dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica e le relative garanzie costituzionali –), tale disposizione costituzionale trova la sua motivazione nell’esigenza di rendere esplicito che il quadro costituzionale dei princìpi fondamentali non ha registrato modifiche sostanziali in tema di garanzie costituzionali accordate ai princìpi e ai diritti fondamentali (Allegretti, 1995; Spadaro, 1994; Ruggeri, 2003; Caia, 2003).

Nell’ottica dell’attuazione (sia pure, allo stato, in gran parte mancata) del federalismo fiscale, dapprima, ed ora del regionalismo differenziato, così, deve sottolinearsi come l’ordinamento costituzionale non possa che far valere i limiti (all’esercizio della potestà legislativa delle Regioni ordinarie e a statuto eventualmente differenziato) – ora pienamente costituzionalizzati nell’art. 117, I co., Cost. – posti dal rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento eurounitario e dagli obblighi internazionali.

Tanto richiamato, può anche richiamarsi, per come già osservato, come le questioni interpretative sollevate dal novellato testo costituzionale (art. 117, II co., lettera m, Cost.; art. 116, III co., Cost.) concernono non tanto la ratio delle richiamate disposizioni quanto i relativi contenuti materiali, e quindi la tipologia dei diritti civili e sociali, da garantirsi su tutto il territorio nazionale nei ‘livelli essenziali’ delle relative prestazioni (Rescigno, 2003; Ruggeri, s/f; Luciani, 2002).

La legislazione ‘concorrente’ nelle nuove materie di cui risultano attributarie le Regioni (soprattutto la tutela della salute, l’istruzione, la tutela e la sicurezza del lavoro, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e la promozione e organizzazione delle attività culturali) – significativamente implementate rispetto al previgente art. 117 Cost. –, quella derivante da ciò che potremmo ora chiamare il ‘principio dispositivo all’italiana’ (art. 116, III co., Cost.) e quella infine attribuita residualmente (– si pensi, in tal senso, al rilievo centrale nelle politiche pubbliche locali della materia dell’assistenza sociale – diritto fondamentale sociale largamente eluso –) dovrà esercitarsi – con le possibili differenziazioni di status delle Regioni medesime – senza mettere in questione lo ‘statuto della cittadinanza’, che dovrà restare ‘nazionale’ e ‘sociale’, assicurando, in tal modo, i livelli essenziali di prestazioni in materia di diritti civili e sociali, nonché l’inderogabilità dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale tra i soggetti e le diverse aree del Paese.

Come è stato già sottolineato, in tale ottica, il riparto operato dal legislatore di revisione costituzionale appare complesso, confuso e perfino “ingenuo” nella sua “pretesa” di fermare il moto irreversibile degli interessi a base dell’ordinamento (Nocito, 2021). Ancora una volta, pertanto, era (ed è) all’interprete e al Giudice delle leggi (si deve ricordare in merito la giurisprudenza sull’‘attrazione in sussidiarietà’, di cui alla sentenza capofila di questo indirizzo giurisprudenziale, la sent. n. 303/2003) che occorreva (e occorre) rivolgersi al fine di poter comporre in un quadro di compatibilità costituzionali le opzioni differenziate (nel tempo e nello spazio) del legislatore statale e di quello regionale.

Quanto ai contenuti materiali dei livelli essenziali in materia di diritti (soprattutto ma non solo sociali), l’interpretazione dottrinaria dei contenuti materiali dell’art. 117 Cost. in materia di diritti (civili e sociali) rinvia a letture fra loro notevolmente distinte, a seconda che prevalga o meno un orientamento (culturale e istituzionale) di discontinuità rispetto alla disciplina previgente. La questione nasce in particolare dalla individuazione dei limiti cui risulta sottoposta la potestà legislativa regionale concorrente – alla cui soluzione ha comunque provveduto in modo espresso il legislatore di revisione costituzionale quando ha limitato tale potestà con la determinazione (con legge dello Stato) di ‘princìpi fondamentali’ – ma soprattutto dalla risposta alle questioni circa l’estensibilità o meno di tale regime di vincoli alla stessa potestà legislativa ‘esclusiva’/‘residuale’ delle Regioni nonché, in futuro, ai vincoli delle materie riguardate dalle intese sulle “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”.

Nella lettura che qui si segue, pertanto, appare pienamente fondato quell’orientamento dottrinario che invoca la finalità garantistica di tutela del bene costituzionale dell’‘unità’, ed in particolare la protezione delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, a prescindere dai confini territoriali dei governi locali e dalle ‘ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia’, come titolo di legittimazione della potestà legislativa statale nel motivare l’eventuale intervento, oltre che attraverso ‘princìpi fondamentali’ anche attraverso una specifica disciplina, di natura trasversale, capace di penetrare nell’ambito regolativo della stessa potestà legislativa regionale (oltre che, naturalmente, in quella amministrativa). Come il Giudice delle leggi ha sottolineato con riguardo ai (già richiamati) rischi di sovvertimenti istituzionali connessi all’esercizio di referendum consultivi regionali radicalmente incompatibili con i fondamentali principi di unità e indivisibilità della Repubblica, di cui all’art. 5 Cost., l’unità della Repubblica costituisce “uno di quegli elementi così essenziali dell’ordinamento costituzionale da essere sottratti persino al potere di revisione costituzionale (sentenza n. 1146 del 1988). Indubbiamente, come riconosciuto anche da questa Corte, l’ordinamento repubblicano è fondato altresì su principi che includono il pluralismo sociale e istituzionale e l’autonomia territoriale, oltre che l’apertura all’integrazione sovranazionale e all’ordinamento internazionale; ma detti principi debbono svilupparsi nella cornice dell’unica Repubblica: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali» (art. 5 Cost.)” (sent cost. n. 118/2015, cons. dir. n. 7.2).

Nel nuovo quadro costituzionale (letto anche nella prospettiva ora in considerazione di attuazione dell’art. 116, III co., Cost.), così, se per le regioni si aprono nuovi ambiti regolativi e di garanzia in ordine alla materia dei diritti (civili e sociali), al contempo, si conferma per lo Stato la competenza a intervenire in tale disciplina regionale sia attraverso la statuizione di ‘princìpi fondamentali’ delle materie che attraverso regole legislative, gli uni e le altre, in ogni caso, rispettosi dei princìpi fondamentali costituzionali e fra essi in particolare, del principio di uguaglianza.

Pur potendo la riforma costituzionale apparire, in tal senso, come operante nel segno di una (sostanziale) continuità, così, l’angolo di osservazione dei diritti civili e sociali dischiude un quadro ordinamentale autonomistico indubbiamente valorizzato nell’ambito dei suoi poteri e fra questi – diversamente da quanto era previsto nel previgente ordinamento – da àmbiti normativi che si estendono alla stessa materia dei diritti civili e sociali. Tuttavia, tali poteri conoscono un limite negativo, nel senso che le regioni, sia nell’esercizio della potestà legislativa concorrente che in quella residuale/esclusiva, sia infine in quella relativa all’esercizio delle competenze di cui alla procedura di cui all’art. 116, III co. Cost., devono conformarsi – oltre ai princìpi fondamentali costituzionali e alle relative disposizioni di garanzia degli articolati cataloghi di diritti fondamentali – ai ‘princìpi fondamentali delle materie’ e alle stesse regole legislative statali poste a garanzia dei beni fondamentali di cui alla lettera m.

Solo nel quadro di una lettura sistematica del rapporto fra forme di decentramento territoriale dei poteri e diritti,5 così, il rischio di uno “scivolamento verso il basso” dei contenuti della nuova disciplina delle prestazioni essenziali in materia di diritti civili e sociali, e con esso di un difficile limite da opporre all’“arbitrio delle maggioranze” (parlamentari e regionali) nel tempo, potrebbe, almeno astrattamente, ritenersi scongiurato. Tale lettura può e deve farsi attingendo anche alle più avanzate (e motivate) interpretazioni della Costituzione, magis ut valeat,6 nonché alla stessa giurisprudenza costituzionale che, nelle tecniche giurisdizionali fin qui utilizzate, ha saputo comunque dare prova di equilibrio (ma anche di prudenza) nel bilanciamento di beni costituzionali di volta in volta coinvolti nel processo costituzionale, comprensivo sia della necessaria gradualità nell’attuazione legislativa, sia dello stesso rispetto della discrezionalità del legislatore. D’altronde, non poteva essere altrimenti nel quadro di una forma di Stato caratterizzata da una Costituzione rigida, nella quale la materia dei ‘contenuti essenziali’ dei diritti fondamentali si ricollega in modo indissolubile a quella dei ‘princìpi supremi’ e dei ‘diritti inviolabili’, come la giurisprudenza (soprattutto, ma non solo, nella sent. cost. n. 1146/1988) e la dottrina costituzionale concordemente assumono quando richiamano la sottrazione della relativa disciplina costituzionale allo stesso potere di revisione costituzionale. A fortiori – occorre aggiungere – al legislatore regionale (ordinario, speciale e in futuro, anche, differenziato).

III. ALCUNE RIFLESSIONI SULLE PROBLEMATICHE COSTITUZIONALI SOLLEVATE DAL (PIÙ RECENTE) INDIRIZZO POLITICO-LEGISLATIVO IN TEMA DI REGIONALISMO ‘DIFFERENZIATO’

Senza poter ora operare un’analisi approfondita in materia, così, si tratta di prospettare gli interrogativi che devono essere posti relativamente ai rapporti fra forme istituzionali del decentramento territoriale e problematiche di compatibilità dell’esercizio dei poteri pubblici ai diversi livelli territoriali con i princìpi costituzionali posti a fondamento dello Stato costituzionale contemporaneo (dall’art. 1 all’art. 13 e fino all’intero titolo V Cost.). Fra gli altri, il principio di eguaglianza (formale e sostanziale), quello personalistico, e quello solidaristico, intesi come princìpi fondamentali per l’intero ordinamento repubblicano, e che in quanto tali, nella relativa estrinsecazione dei poteri, si estendono come limite, alle autonomie territoriali.

Questi stessi princìpi informano di sé l’intera architettura repubblicana (sia prima che dopo la revisione costituzionale del Titolo V, degli anni 1999/2001), portando ad interrogarsi su àmbiti e limiti del regionalismo inteso non come mera riorganizzazione sul territorio (di tipo funzionalistico) delle competenze statali quanto piuttosto in termini di effettività dei diritti (civili e sociali), prescindendo dai confini territoriali dei governi regionali e locali. Un tema – quest’ultimo – che, da almeno un trentennio, è al centro della riflessione costituzionalistica e comparatistica ma, al contempo, di non insignificanti tentativi di lacerazione del tessuto politico/civile del Paese, che hanno portato a galla una gracilità di fondo del processo di unificazione politica del Paese (170 anni circa, orsono), manifestandosi come una ‘questione meridionale’ aggravata nei suoi contorni economici e sociali rispetto ad una (più recente) ‘questione settentrionale’, egualmente sussistente ma dai contenuti del tutto diversi dalla prima. Una questione di dualismo territoriale che era partita con la minaccia politica di secessione di parti del territorio del nord-est del Paese (la inesistente ‘Padania’ pretesa dalla Lega di Bossi), era proseguita con una (solo) apparente maggiore ragionevolezza nell’adozione della legge n. 42/2009 (legge cd Calderoli), nella quale, se venivano tutelati i livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali positivizzati nell’art. 117, II co, lettera m della Costituzione, continuavano comunque a restare senza la integrale copertura del finanziamento pubblico le rimanenti funzioni dei comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Regioni).

L’analisi delle relazioni esistenti fra forma di Stato e diritti (soprattutto ma non solo sociali), così, rileva soprattutto per le problematiche costituzionali relative all’eguaglianza delle condizioni di vita dei cittadini, che concretizzano lo ‘statuto della cittadinanza’ (unitaria e sociale), secondo una formula invalsa nell’analisi costituzionale e in quella politica.

La Corte costituzionale ha confermato tale assunto con un indirizzo giurisprudenziale chiaro e stabile nel tempo. Già a partire dai primi anni ’70, in tale ottica, così, la Corte aveva modo di affermare che “il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. consente al legislatore ordinario di dettare norme differenziate per disciplinare situazioni ritenute obiettivamente e ragionevolmente diverse” (Corte cost., sent. n. 57 del 1967). In tale direzione, la Corte costituzionale estende l’applicazione del principio di eguaglianza anche alla normativa statale concernente le Regioni (Corte cost., sent. n. 87 del 1992). Naturalmente, l’eguaglianza può convivere con forme di organizzazione statale che prevedono asimmetrie e differenziazioni nelle forme di distribuzione territoriale delle competenze purché siano fatti salvi i princìpi costituzionali e le disposizioni costituzionali in materia di diritti fondamentali. È appunto il caso della previsione costituzionale, in Italia, accanto alle Regioni a statuto ordinario, di Regioni a statuto speciale, il cui statuto, come si ricorda, è approvato con legge costituzionale, nonché di una ulteriore differenziazione in ragione di quanto si prevede nel novellato art. 116, III co., Cost., alle stringenti procedure e vincoli ivi previsti. Se si fa salva la specialità prevista per le (cinque) regioni a statuto speciale, inoltre, può osservarsi che, nel fondo, le regioni ordinarie e le autonomie locali hanno registrato linee evolutive ispirate ad un sostanziale uniformismo e ad una differenziazione debole nei relativi contenuti (competenziali e organizzativi).

In una simile cornice politica e istituzionale, pertanto, occorre porsi quegli interrogativi essenziali che da sempre vengono sollevati quando si riflette sui rapporti fra le forme istituzionali concrete del decentramento territoriale e le problematiche della loro compatibilità con i princìpi costituzionali posti a fondamento dello Stato costituzionale repubblicano. Per quanto riguarda il sistema regionale e locale, si tratta, come è noto, degli articoli da 1 a 13 e dell’intero Tit. V Cost. Ai fini di questa riflessione, come si è già sottolineato, fra di essi, riveste un ruolo centrale il principio di eguaglianza (formale e sostanziale), il principio personalista e quello solidarista, posti alla base della Costituzione repubblicana come princìpi fondanti (assiologici) dell’intero ordinamento repubblicano. In quanto tali, pertanto, essi si estendono – segnandone il limite non eludibile – alle autonomie territoriali (regioni e comuni) nella concreta estrinsecazione dei loro poteri e dunque, per quanto ora si vuole sottolineare, nella concreta relazione (da prevedersi in sede di attuazione delle procedure attuative dell’art. 116, III co., Cost. in tema di ‘regionalismo differenziato’) fra la distribuzione territoriale delle competenze, l’esercizio dell’autonomia di entrata e di spesa da parte degli enti territoriali e la perequazione delle risorse finanziarie (di particolare rilievo per le regioni fiscalmente deboli).

Tale principio è chiamato ad assicurare che l’autonomia territoriale consentita dalla (appena richiamata) procedura costituzionale non si possa tradurre nella limitazione delle prestazioni legislative e amministrative relative ai diritti fondamentali (sociali ma non solo), a prescindere dal territorio di residenza. Parliamo qui, in particolare (ma l’elenco è meramente indicativo) del diritto alla salute, del diritto alla istruzione, del diritto al lavoro, del diritto alla assistenza sociale e alla previdenza, del diritto all’esistenza libera e dignitosa, che costituiscono i pilastri dello Stato sociale di diritto, nonché attuazioni obbligatorie del principio di eguaglianza (art. 3.2 Cost.) e del principio solidaristico (art. 2 Cost.).

Tali princìpi (unitamente a tutti gli altri accolti nella rubrica dei Princìpi fondamentali, artt. 1/12 Cost.) informano di sé l’intera architettura costituzionale repubblicana (sia prima che dopo la revisione costituzionale del Titolo V, intervenuta negli anni 1999/2001), portando ad interrogarsi in modo problematico sugli àmbiti e sui limiti del regionalismo inteso non come mera riorganizzazione (secondo una logica istituzionale funzionalistica) delle competenze statali fra centro e periferia quanto piuttosto in termini di effettività dei diritti (civili e sociali), prescindendo dai confini territoriali dei governi regionali e locali. Un tema – quest’ultimo – che, a partire dalla riforma del Tit. V Cost., ritroviamo, per come richiamato in precedenza, al centro del dibattito pubblico e dell’analisi costituzionalistica in particolare a partire dalla stagione di approvazione degli statuti regionali ma anche dopo con riguardo alla giurisprudenza costituzionale in tema di competenza degli statuti regionali nella materia dei principi e dei diritti fondamentali (cfr. Gambino, 2014c).

Da almeno un trentennio, come si è già osservato, tale tema si pone ora alla base di non banali rischi di lacerazione del tessuto politico/civile del Paese, che hanno fatto riemergere, come si è già ricordato, una gracilità di fondo del processo di unificazione politica del Paese (quasi 170 anni orsono), che ha assunto le forme di una non risolta (anzi aggravata) ‘questione meridionale’. Un simile discutibile progetto di dualismo territoriale del Paese era inizialmente partito con le minacce di secessione della cd ‘Padania’, proseguendo con l’adozione della legge sul federalismo fiscale (legge Calderoli, 42/2009) e arenandosi infine nelle terre mobili della ‘resistenza’ del sistema regionale/locale, per riemergere infine (nelle forme discutibili quanto ai contenuti materiali e alla procedura prevista) con il progetto di regionalismo differenziato delle regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, cui invero sono parse interessate anche altre regioni.

Poiché le bozze di tale provvedimento legislativo hanno fatto registrare limiti e dubbi di ordine costituzionale (ma anche in ragione della considerazione per cui gli stessi non sono stati successivamente sussunti, almeno in modo esplicito, nell’indirizzo governativo del successivo Governo Draghi), ci limiteremo di seguito a proporre qualche interrogativo sugli stessi dubbi di legittimità di quell’indirizzo legislativo (poi caducato con il cambio di governo ‘Conte 2’), di modo che possano costituire oggetto di riflessione nello stesso vaglio del progetto di regionalismo differenziato predisposto dal ministro Boccia qualora lo stesso avesse trovato l’accordo fra le forze politiche del Governo (‘Conte 2’).

La legge sul federalismo fiscale (legge n. 42/2009), con le sue luci e ombre, in questo senso, può essere ora nuovamente richiamata, sia pure nei suoi princìpi essenziali. Se riguardata rispetto alle (già richiamate) sfide secessive, come non era scontato che accadesse negli anni di turbolenza politica in cui venne alla luce, deve osservarsi come quel testo legislativo (cui in ogni caso le forze politiche hanno fatto mancare la piena attuazione) si faceva comunque carico di tutelare i ‘livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali’. Rispetto a tale profilo, pertanto, la legge si presentava rispettosa delle previsioni di cui all’art. 117, II co., lett. m e all’art. 120, II co., della Costituzione. Nella stessa, tuttavia, sarebbero rimaste senza la (necessaria) ‘integrale copertura’ le funzioni pubbliche attribuite ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni, per come previsto dall’art. 119, IV co., Cost.; in tale ottica non poteva che cogliersene il contrasto con lo spirito e il testo della Costituzione.

Nella Costituzione repubblicana, come è noto, sussiste una relazione stretta fra modello di ‘Stato sociale’ ed effettività dei diritti (sociali, ma non solo). In altri termini, in tale forma di Stato, il legislatore statale e quello regionale non possono esercitare la loro funzione legislativa omettendo di legiferare quando la Costituzione lo preveda o perfino adottando decisioni legislative in contrasto con le previsioni costituzionali in tema di Princìpi fondamentali (artt 1-12) e di diritti fondamentali (civili e sociali). La eventuale omissione del legislatore e la violazione dei princìpi fondamentali della Costituzione e delle disposizioni in tema di diritti fondamentali conoscono la censura costituita dal sindacato di costituzionalità della Corte (ma da tempo la giurisprudenza costituzionale in tema di omissione del legislatore appare piuttosto elusiva). Non deve certo omettersi di richiamare come il testo costituzionale preveda procedure di controllo della costituzionalità delle leggi interne alle Camere, ma queste ultime possono comunque risultare (e risultano in concreto e da tempo) condizionate nel quadro di un parlamentarismo divenuto nel tempo (almeno sostanzialmente) ‘maggioritario’.

Da qui la stretta relazione che non può non riguardare il presente legislatore in tema di ‘regionalismo differenziato’ al momento di interrogarsi se le proprie scelte di riorganizzazione delle competenze legislative fra Stato e Regioni (e fra le Regioni riguardate dall’attuazione dell’art. 116, III co., Cost.) appaiono capaci di assicurare, all’interno di ogni singola regione e nell’insieme delle altre regioni, la pienezza della tutela costituzionale assicurata ai livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali.

Lo ‘statuto di cittadinanza’ (unitaria e sociale), pertanto, costituisce il limite non aggirabile del processo legislativo di attuazione dell’art. 116, III co., Cost. avviato da parte delle tre richiamate regioni (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna), e nel prosieguo della vita parlamentare nuovamente assunte come impegno politico nel programma del Governo ‘Conte 2’ e, (in futuro, probabilmente) dello stesso Governo Draghi. Laformula utilizzata dal legislatore di revisione costituzionale nell’art. 116, III co., Cost. appare solo parzialmente sovrapponibile a quella utilizzata dal testo costituzionale nell’art. 116, I co, ove, al contempo, ritroviamo positivizzata la previsione delle cinque regioni attributarie della specialità costituzionale e del relativo regime, per il quale le stesse dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale. Per le ‘altre’ regioni, ora riguardate dalla revisione costituzionale dell’art. 116, III co., Cost., sussistendone i presupposti costituzionali e nel rispetto della procedura ivi sancita, esse possono attivarsi per conseguire “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” ma il loro ambito risulta comunque costituzionalmente delimitato alle materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s). Tali materiepossono costituire oggetto di riallocazione (dallo Stato alle Regioni interessate) con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.

La procedura per pervenire al regionalismo differenziato, così, ribadisce il limite del rispetto dei princìpi sanciti nell’art. 119 Cost. come, più in generale, per l’intero ordinamento repubblicano permangono i limiti costituiti dal rispetto dei princìpi fondamentali e dalla tutela della effettività dei diritti fondamentali della persona. Accanto al (possibile) riassetto delle materie di legislazione concorrente e in parte anche di legislazione esclusiva (le materie indicate dal secondo comma dell’art. 117 alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), si conferma come l’approccio obbligato da seguire per accostarsi alle problematiche del federalismo (fiscale) e (ora) a quelle del regionalismo differenziato, pertanto, sia appunto quello che mette al centro dell’analisi i rapporti fra federalismo/regionalismo e diritti di cittadinanza. Rispetto a tali rapporti, acquistano indubbia centralità le risorse necessarie all’esercizio delle competenze riconosciute alle regioni, sguarnite da norme costituzionali espresse di garanzia, almeno relativamente alla ‘perequazione finanziaria’, che per tale ragione potrà risultare difficilmente giustiziabile restando affidata alla negoziazione politica all’interno della Conferenza Stato-Regioni. Una perequazione che, se individuata nella forma della sola redistribuzione compensativa, non potrà porsi come garante della esigibilità dei livelli essenziali delle prestazioni afferenti la sanità, il sociale, la scuola e il trasporto pubblico locale. Garanzia – quest’ultima – pretesa dalla Costituzione (art. 117, II co., lettera m; art. 119.3).

Il profilo centrale del tema (tanto, ieri, con riguardo alla legge sul federalismo fiscale, tanto, attualmente, sul regionalismo differenziato), pertanto, è rappresentato dall’interrogativo (e dalle relative risposte) che riguardano la compatibilità del nuovo assetto delle competenze regionali per come risultanti dalla procedura sancita nell’art. 116, III co., Cost. con la garanzia del principio di eguaglianza fra i cittadini e, con esso, della garanzia dei diritti di cittadinanza (unitaria e sociale). Nell’assegnare alla legislazione ‘esclusiva’ dello Stato la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, la disposizione costituzionale prima richiamata (art. 117, II co., lettera m, Cost.) mira a garantire la garanzia del principio di eguaglianza di fronte alla legge “su tutto il territorio nazionale”. Si ponevano, dunque, (e si pongono fattualmente) come evenienze possibili la lesione del principio di eguaglianza dei cittadini all’interno di ogni singola Regione ma (soprattutto) con riferimento al luogo di residenza. È soprattutto rispetto a tale possibile diseguaglianza che costituisce garanzia dei diritti di cittadinanza la richiamata previsione costituzionale, nonché quella dell’ulteriore limite costituito dai ‘princìpi fondamentali riservati alla legislazione dello Stato’ con riferimento ai limiti conosciuti dalle competenze concorrenti ed esclusive delle Regioni. Tematica – questa – che risulterà senz’altro fondamentale nell’ottica delle garanzie giurisdizionali nei confronti delle asimmetrie competenziali che potrebbero venire previste nel regionalismo differenziato rispetto ai principi costituzionali di garanzia.

Nell’attuazione del principio di solidarietà, in tal senso, alla ‘Repubblica’ spetta di far valere, a titolo di solidarietà e di ‘coesione sociale’, tutte quelle garanzie che concorrono, con il principio di eguaglianza sostanziale, a superare le diseguaglianze originate nel sistema economico e sociale, rimuovendone gli squilibri e favorendo l’effettivo esercizio dei diritti della persona. Al legislatore (statale e regionale) e al rimanente sistema autonomistico della Repubblica, nell’esercizio dei poteri normativi di cui sono rispettivamente attributari in via costituzionale, compete la tutela dei LEP concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali (Anzon, 2003; Morrone, 2003).

Se ne può concludere che tale disposizione costituzionale trova la sua motivazione nell’esigenza di rendere esplicito che il quadro costituzionale dei princìpi fondamentali non ha registrato fin qui (come nel quadro di un costituzionalismo di tipo rigido non era comunque prevedibile che potesse accadere) modifiche di pregio né potranno essere introdotti nuovi regimi legislativi nel riparto competenziale che mettano in questione un simile assetto senza che ad essi faccia seguito una perequazione finanziaria idonea ad assicurare ai cittadini in ogni parte del territorio ove gli stessi risiedano pari opportunità di accesso e di esercizio dei diritti. In tale ottica, l’ordinamento costituzionale registra i limiti – pienamente costituzionalizzati nell’art. 117, I co., Cost. – posti dal rispetto della Costituzione, dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Può ora sottolinearsi come le questioni (di interpretazione) sollevate dal nuovo testo costituzionale a seguito della revisione del titolo V rispetto agli indirizzi legislativi fin qui (in)tentati ma senza successo (regionalismo differenziato e federalismo fiscale) non concernano tanto la ratio delle richiamate disposizioni quanto piuttosto i relativi contenuti materiali, e quindi la tipologia dei diritti civili e sociali, da garantirsi su tutto il territorio nazionale. La legislazione ‘concorrente’ nelle nuove materie di cui le Regioni risultano attributarie (soprattutto tutela della salute, istruzione, tutela e sicurezza del lavoro) e quella attribuita residualmente (assistenza sociale) dovrà esercitarsi senza mettere in questione lo ‘statuto della cittadinanza’, che dovrà restare ‘nazionale’ e ‘sociale’, assicurando, in tal modo, i LEP in materia di diritti civili e sociali. Ciò che costituisce limite per lo Stato nella garanzia dello ‘statuto di cittadinanza’, naturalmente costituisce limite anche nel rapporto con le altre regioni che perseguano la procedura della intesa di cui all’art. 116, III co., Cost.

In tal modo, così, siamo in presenza di un nuovo quadro costituzionale, nel quale si è aperto per le Regioni un nuovo ambito regolativo e di garanzie in ordine alla materia dei diritti ma, al contempo, si è confermata per lo Stato la competenza (e pertanto la doverosità) a intervenire in tale disciplina regionale, sia attraverso la statuizione di ‘princìpi fondamentali’ della materia che attraverso regole legislative (sia pure non di dettaglio). Tali parametri sono garantiti dalla Corte costituzionale, ad evitare che eventuali ‘eccentricità’ o anche omissioni del legislatore ordinario e di quelli regionali si pongano in modo lesivo con riguardo al rispetto dei beni costituzionali più volte richiamati.

Quanto al nuovo regime dell’autonomia finanziaria territoriale sancito dall’art. 119 Cost., anch’esso pone significative questioni con riguardo ai rapporti fra decentramento territoriale e princìpi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. La nuova ‘costituzione finanziaria’, invero, non definisce puntualmente le relazioni finanziarie tra i diversi livelli di governo, limitandosi a regolarli in via di principio e riservando alla legislazione statale la competenza esclusiva in materia di ‘perequazione delle risorse finanziarie’. L’art. 119 Cost., fra gli altri, costituzionalizza il principio della territorialità dell’imposta.Ciascuna Regione, in questa ottica, finanzia integralmente le funzioni pubbliche ad essa attribuite con tributi ed entrate proprie, mediante compartecipazioni al gettito di tributi erariali “riferibili al loro territorio”, nonché mediante il fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, volto a perequare le differenti capacità fiscali interterritoriali (soprattutto per i territori con minore capacità fiscale per abitante).

Gli effetti redistributivi del disegno costituzionale di finanza regionale, tuttavia, suscitano interrogativi (e li susciteranno ancor più in sede di attuazione delle procedure di cui all’art. 116, III co., Cost.), posto che, pur prevedendosi meccanismi perequativi (indefiniti nell’entità e nel peso specifico e fin qui non disciplinati legislativamente), non è assente un possibile, concreto, rischio di ulteriore polarizzazione tra aree territoriali (fiscalmente) ‘ricche’ e ‘povere’ (e tra le tre regioni interessate dalla procedura dell’Intesa e tutte le altre), che può incrementare il grado di diseguaglianza fra territori e fra persone, nonché la stessa parziale decostituzionalizzazione sostanziale della Norma fondamentale in materia.

Il testo dell’art. 119 Cost., inoltre, prevede l’attribuzione dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa ai Comuni, alle Province e alle Regioni, i quali “stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri” sia pure nel rispetto della disposizione costituzionale in materia di “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”. Accanto a tali flussi finanziari, esso individua, inoltre, l’istituzione di “un fondo perequativo senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Con tale disposizione di chiusura, inoltre, stabilisce che i flussi finanziari derivanti da risorse autonome (tributi propri e compartecipazioni) e dal fondo perequativo consentono alle autonomie territoriali di “finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite” (art. 119, IV co., Cost.). Rimane chiaro che il profilo tributario dell’autonomia regionale deve, in ogni caso, informarsi al principio generale dell’unità dell’ordinamento e ai princìpi stabiliti con legge statale in ordine alla configurazione dei tributi (in base alle riserve di legge di cui agli artt. 2, 23 e 53 Cost.), mentre alle Regioni, oltre al concorso nelle decisioni politico-legislative, spetta il disegno di un “sistema tributario” – da definire con legge regionale – ovvero di “stabilire e applicare tributi ed entrate propri”.

Se dall’analisi giuridica relativa ai rapporti fra decentramento territoriale delle competenze statali e garanzia dei diritti fondamentali passiamo al dibattito politico-istituzionale (federalismo fiscale ieri, regionalismo differenziato attualmente), tuttavia, può condividersi la preoccupazione di chi ha fatto osservare come ogni discorso sul federalismo fiscale (ed oggi sul regionalismo differenziato) si caratterizzi in via generale per un tecnicismo che ne ostacola la piena comprensione, assumendosi in tal senso la ragionevolezza di quell’orientamento che ha sottolineato come, nel fondo, il discorso sul federalismo fiscale (ieri) e quello sul regionalismo asimmetrico (attuale) inizierà a divenire plausibile solo quando la maggioranza (di governo) inizierà a misurarsi sul tema “tabelle alla mano”. A fronte dei limiti registrati nell’attuazione della legge sul federalismo fiscale (l. 42/2009) e del dibattito piuttosto asfittico sul regionalismo asimmetrico in corso ormai da più tempo, tuttavia, è da osservarsi come esso pare ancora troppo connotato da un tasso di eccessivo simbolismo e di retoricità e comunque ancora poco approfondito rispetto agli obiettivi attesi della riforma fiscale/regionale e (della coscienza della esistenza) dei connessi limiti costituzionali. D’altra parte, deve anche sottolinearsi come risulti del tutto discutibile ipotizzare il successo del modello federale nel quadro di un sistema politico regionale/locale (che era e permane in gran parte) debole (come le strategie di contrasto della pandemia da coronavirus hanno dimostrato per tabulas). D’altra parte, non si può negare il fascino argomentativo per talune regioni (Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna), consistenti nella sottolineatura di una relazione molto stretta fra decentramento, sussidiarietà delle funzioni pubbliche e modernizzazione amministrativa. Una relazione che assegnava al federalismo fiscale, ieri, e al regionalismo differenziato, ora, l’idoneità a realizzare una migliore efficienza amministrativa e che fa chiaramente aggio sull’egoismo fiscale di tali territori. Si tratta però, anche in questo caso, di discuterne l’attendibilità a fronte di una forma di Stato che, in ogni caso, è chiamata ad assicurare a tutti i cittadini, a prescindere dal territorio in cui gli stessi risiedono,7 servizi pubblici idonei a garantire i diritti fondamentali (soprattutto sociali, ma non solo) e più in generale tutte quelle prestazioni che ne fanno uno Stato sociale attento alla effettività delle politiche di welfare e prima ancora alla effettività dei diritti sociali riguardati da tali politiche.

L’alternativa al criterio della spesa storica nella riorganizzazione del sistema fiscale del Paese in tali testi di riforma (fiscale e regionale) sarebbe quello del fabbisogno del sistema regionale e di quello autonomistico, da valutare in base ad una nuova misurazione dei costi, di tipo standard e non più a piè di lista, ovvero di spesa storica. Tuttavia, allo stato, mancano dati comparativi idonei a supportare giudizi e decisioni (governative e parlamentari). Allo stato, per il Parlamento, appare perfino incerto il potere di partecipare alla discussione sulla modifica dell’accordo convenuto fra singola Regione e Governo. L’invocata assimilazione con lo strumento delle Intese di cui all’art. 8 Cost., con riguardo alla disciplina dei rapporti fra confessioni religiose e Stato, non appare certo scevra da dubbiosità, come è stato osservato almeno in una parte della dottrina. A chi scrive, pertanto, pare che lo scenario delineato dal testo di legge Calderoli sul federalismo fiscale, qualora avesse registrato la sua piena attuazione, come la stessa bozza governativa sul regionalismo differenziato (Governo ‘Conte 2’) alla base delle intese fra lo Stato e le tre regioni interessate, appariva destinato, in modo pressocché inevitabile, ad una sua riscrittura da parte della Corte costituzionale per assicurarne, nella relativa positivizzazione legislativa, la conformità alla Costituzione. Una simile argomentazione tuttavia (a suo tempo, non era parsa, e tuttora) non pare nelle corde del ceto politico di governo!

IV. RIFORME DEL REGIONALISMO, TUTELA DELLA SALUTE E GIUDICE DELLE LEGGI

1. Il diritto alla salute fra tutele dell’art. 32 Cost. e riparto competenziale del novellato titolo V Cost. fra (competenza legislativa esclusiva dello) Stato e (competenza concorrente e residuale delle) Regioni

Al parametro costituzionale del diritto alla salute come diritto sociale fondamentale (con il relativo fondamento nell’art. 32 Cost.), la giurisprudenza e la dottrina costituzionale hanno attinto per inquadrare la relativa tutela costituzionale e con essa le stesse esigenze di bilanciamento con altre situazioni giuridiche parimenti fondamentali. A partire dalla revisione costituzionale del Tit. V, tuttavia, si pongono problemi aggiuntivi di interpretazione in ragione, fra l’altro, del riparto delle competenze previsto in materia sanitaria fra Stato e regioni e all’interno di tale riparto dalle questioni poste dall’àmbito e dai relativi limiti della competenza concorrente delle regioni nella materia della ‘tutela della salute’, a protezione di altri beni parimenti fondamentali e parimenti oggetto di bilanciamento.

Rispetto al novellato quadro costituzionale della Repubblica, in tale prospettiva, il legislatore di revisione costituzionale pare aver rimodulato, nel suo complesso sia pure in modo implicito, la stessa nozione di ‘interesse nazionale’ (di cui all’art. 117, I co., dell’originario testo costituzionale), con la previsione di istituti di garanzia posti a tutela di beni costituzionali quali l’unità giuridica ed economica, la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali, l’incolumità e la sicurezza pubblica, nonché il rispetto degli obblighi di derivazione comunitaria e internazionale (specificamente sanzionati con il controllo sostitutorio secondo le previsioni dell’art. 120, II co., Cost.). Alle stesse finalità, ma in una logica di tipo promozionale dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale, nonché per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, la novellata previsione costituzionale di cui all’art. 119, V co., Cost., prevede che lo Stato destini risorse aggiuntive ed effettui interventi speciali in favore di determinati comuni, province, città metropolitane e regioni. L’insieme delle disposizioni appena richiamate, in tale ottica, esplicitano l’intento del legislatore di revisione di preservare l’‘interesse nazionale’, sia pure rimodulandolo, garantendo al contempo il principio fondamentale (art. 5 Cost.) della unità e della indivisibilità della Repubblica. A tal fine, nel riparto delle competenze, il novellato testo costituzionale ha assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato “la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali”. Parimenti, esso ha previsto che le materie di legislazione concorrente (art. 117, III co., Cost.) debbano conoscere il limite dei “princìpi fondamentali”, parimenti riservati alla legislazione esclusiva dello Stato. Lo stesso limite, a ben vedere, deve assumersi esteso alla potestà legislativa esclusiva (o ‘residuale’) delle regioni (art. 117, IV co., Cost.), secondo un criterio di interpretazione logico-sistematica, che rigetta l’esercizio delle competenze regionali ai sensi del IV co. che prescindesse dalla a) applicazione alla stessa degli stessi limiti sanciti nell’art. 117, I co., Cost. (rispetto della Costituzione, vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali), laddove il ‘rispetto della Costituzione’, sulla base di una interpretazione (necessariamente) sistematica e per princìpi, deve intendersi come rispetto di tutti i princìpi fondamentali e delle disposizioni costituzionali in materia di diritti fondamentali, nonché b) dei limiti alla legislazione regionale (concorrente ed esclusiva) posti dalle esigenze di unità giuridica e politica e, pertanto, anche dei ‘livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali’, i quali, per espresso dettato costituzionale, “devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.

Diversamente da quanto era previsto nel previgente ordinamento regionale, come si è già osservato, infatti, il nuovo Tit. V Cost. introduce novellate modalità di disciplina dei diritti sociali e civili, che attribuiscono alle regioni competenze concorrenti e residuali in specifiche materie, conservando pienamente in capo allo Stato la statuizione dei livelli essenziali di prestazioni, in modo da assicurare un godimento dei diritti fondamentali non differenziabile sui territori in ragione dei loro contenuti essenziali. Rispetto al testo previgente, la nuova formulazione dell’art. 117 Cost. prevede (e consente) ambiti competenziali in materie che hanno riflessi (comunque non scevri di problematicità interpretative) sui diritti fondamentali, sia sociali che civili. In tale prospettiva, la quantità e la qualità della nuova allocazione delle competenze a livello regionale è pienamente comparabile, materialiter, a quella operata nei sistemi federali (e perfino confederali), differenziandosene per le sole tecniche istituzionali dell’allocazione e della relativa legislazione attuativa e integrativa. Nell’assegnare alla legislazione esclusiva dello Stato la ‘materia’ – che, non di rado, a ben cogliere, costituisce una funzione, come ha sottolineato la Corte costituzionale in varie sue pronunce (fra cui, in particolare, n. 282/2002 e n. 407/2002) – della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, la novellata disposizione costituzionale è volta ad assicurare – in modo esplicito – la garanzia del principio di eguaglianza di fronte alla legge – ora da intendersi, soprattutto, come eguaglianza di fronte alla Costituzione – “su tutto il territorio nazionale”. Il legislatore di revisione, in tale quadro, si muove in un quadro teorico-costituzionale nel quale si assume come definitivamente superato il risalente modello dell’uniformismo e del centralismo al quale ha corrisposto, nella prassi, una legislazione regionale sostanzialmente omologa.

2. Il diritto alla salute fra ‘livelli essenziali delle prestazioni’ e sua giustiziabilità

A conclusione dell’analisi fin qui richiamata, sia pure in modo essenziale, può ora risultare opportuno soffermarsi – anche a mo’ di esemplificazione delle problematiche di effettività dei diritti sociali (e non solo) riguardati dalla nuova allocazione regionale delle competenze fissata dal legislatore di revisione8– sulla ‘tutela della salute’, assegnata alla competenza concorrente delle regioni, (con qualche cenno alla stessa assistenza sociale, ricompresa fra le competenze esclusive delle stesse, in quanto non rientri fra le competenze esclusive della legge statale né fra quelle della competenza concorrente delle regioni).9 L’uno e l’altro dei due richiamati diritti fondamentali considerati sotto lo stesso profilo della giustiziabilità della relativa pretesa, garantita sia nella relativa natura di diritto soggettivo perfetto sia come interesse legittimo, categorie normative – queste ultime – ambedue riguardate, alla luce degli artt. 32, 38 e 117 Cost., dalla tematica ora in discussione sotto il profilo della effettività della tutela giudiziaria.

Rispetto alla previgente disciplina legislativa in materia sanitaria, oggetto di un rilevante processo di riforma nel corso degli anni ’90 del secolo passato, la costituzionalizzazione dei ‘livelli essenziali delle prestazioni’, di cui si è detto in precedenza sia pure in modo essenziale, costituisce una evoluzione di fondo nell’ordinamento sanitario, che si qualifica per i suoi destinatari come nuove situazioni giuridiche protette con il rango proprio dei diritti soggettivi perfetti. In tale ottica, se non leggiamo in modo errato l’evoluzione ordinamentale sanitaria alla luce della novella costituzionale, così, non pare residuare spazio per una considerazione della natura del diritto alla salute come ‘diritto finanziariamente condizionato’, come la Corte costituzionale ancora sanciva nella sent. n. 356/1992, quando affermava che “in considerazione della limitatezza delle risorse, non potrebbe consentirsi a un impiego di risorse illimitato avendo riguardo solo ai bisogni; è viceversa la spesa a dover essere commisurata alle effettive disponibilità finanziarie”, ancorché tale giurisprudenza fosse stata già modificata nel fondo in una serie di importanti pronunce degli anni ’90 (sentt. n. 247/1992, n. 267/1998; n. 309/1999), e successivamente, fra l’altro, nella sent. n. 509/2000, nella quale il Giudice delle leggi sottolineava che “il bilanciamento fra valori costituzionali e commisurazione degli obiettivi determinati dalle risorse esistenti non può intaccare il nucleo irrinunciabile del diritto alla salute protetto costituzionalmente come valore inviolabile della dignità umana”. A tale giurisprudenza la Corte era pervenuta con riferimento al sindacato di costituzionalità delle specifiche questioni sottoposte al suo vaglio, a suo tempo, dalla disciplina accolta nel d.lgs n. 502 del 1992, ed in particolare dalla determinazione da parte di quest’ultimo dei nuovi standard prestazionali, con correlativo abbandono del previgente modello universalistico in favore di uno ‘universalistico selettivo’, chiamato a conformarsi alle risorse disponibili, da una parte, e ad ispirarsi ai nuovi criteri dei LEP, come imposti dalla necessità, dall’efficacia clinica e all’appropriatezza d’uso degli interventi sanitari previsti ed erogati. Nella lettura che qui si segue, così, può chiedersi se la novellata disciplina costituzionale non sia da esaminare con riferimento alla stessa giustiziabilità di eventuali comportamenti omissivi delle amministrazioni sanitarie in quanto “enti obbligati ad offrire i servizi nelle aree comprese nei livelli essenziali”, ponendo espressamente, in tal modo, la questione dell’impatto delle organizzazioni pubbliche sulla effettività dei diritti. E, prima ancora, parimenti, può chiedersi se il rispetto dei ‘livelli essenziali’ non debba cogliersi come un vincolo organizzativo all’interno del quale soltanto può legittimamente esercitarsi l’autonomia funzionale delle organizzazioni sanitarie.

Nell’avanzare qualche osservazione rispetto agli interrogativi posti, non può non sottolinearsi, preliminarmente, l’effetto novativo nel sistema sanitario prodotto dalla costituzionalizzazione dei LEP, che al criterio interpretativo della successione delle leggi nel tempo aggiunge la positivizzazione e in tal modo la forza propria della previsione costituzionale, gerarchicamente sovraordinata in forza della natura propria della disposizione costituzionale, in quanto legge superiore, inner law. Ora, mentre nel sistema legislativo previgente alla riforma costituzionale il riferimento ai livelli di tutela era indubbiamente inteso “al minimo” (ad es. art. 1, I co., lettera g della l. n. 421/1992, ma anche il d.lgs n. 229/1999; la l. n. 328/2000; PSN relativo al triennio 1998­2000, che distingueva fra livelli di assistenza ‘necessari’ e ‘appropriati’), con la costituzionalizzazione dei ‘livelli essenziali di prestazione’ si è conferito allo Stato la competenza esclusiva per la loro individuazione e per la relativa garanzia, anche a protezione della eguaglianza dei soggetti, a livello personale e interterritoriale; con essi si costituzionalizza, per la prima volta in modo formale, lo stesso status dei diritti sociali, che fin qui costituiva una mera qualificazione dottrinaria. Naturalmente, un simile quadro normativo non può che comportare conseguenze positive in capo al soggetto interessato all’esercizio del diritto alla salute, e ciò sia in termini di riconoscimento positivo del diritto in considerazione sia in termini di effettività della tutela giurisdizionale apprestata. Quest’ultima include ormai la stessa tutela risarcitoria e inibitoria, propria dei diritti soggettivi perfetti, in presenza di danni causati da illegittimo esercizio della funzione pubblica (sent. n. 500/1999 della Corte di Cassazione; l. n. 205/2000).

Quanto poi al contenuto materiale della pretesa giuridica azionabile giurisdizionalmente, la novellata disposizione costituzionale in materia di ‘livelli essenziali di prestazioni’ (art. 117, II co. lettera m, Cost.) pare assicurare piena copertura costituzionale alla stessa censura di illegittimità in caso di inerzia e/o di omissione, degli enti tenuti ad organizzare ed erogare i servizi sanitari (come anche quelli socio-assistenziali). Già in passato (sent. n. 309/1999), in tale prospettiva, la Corte aveva censurato la legislazione regionale che escludeva il diritto del cittadino al rimborso delle spese sanitarie sostenute all’estero pure in assenza di una previa richiesta (sent. n. 509/2000), oppure fruite presso una struttura privata convenzionata o anche il ricorso a forme di assistenza indiretta (sent. n. 309/1999), ogni qualvolta il paziente versasse in condizioni di salute tali da far temere un danno grave e irreversibile. In altri termini, il rispetto del presupposto del ‘bene della vita’ – nella fattispecie la salvaguardia della vita stessa – non consente affievolimenti del diritto alla prestazione dell’assistito che fossero dovuti all’esercizio del potere autorizzatorio della Regione. Senza naturalmente frustare il potere/dovere di organizzazione del servizio sanitario, e pertanto i necessari e connessi gradi di discrezionalità del legislatore e dell’amministrazione sanitaria, il soggetto-assistito dal SSN che ritenga di trovarsi in presenza di comportamenti (più o meno gravemente) omissivi dell’amministrazione sanitaria (analisi sostanzialmente analoga deve farsi comunque anche per i soggetti/enti privati erogatori del servizio sanitario sulla base di procedure di autorizzazione e di accreditamento) può ricorrere al giudice invocando la lesione dei ‘livelli essenziali di prestazione’ costituzionalmente garantiti in materia di diritto sociale alla salute, con le connesse garanzie. In altri termini, la gravità del bisogno del paziente con riferimento alle situazioni garantite nei LEP fonda una pretesa giuridica perfetta capace di portare alla censura di illegittimità del comportamento omissivo e – ciò che più rileva per l’amministrazione regionale e per la relativa amministrazione sanitaria – la stessa tutela del diritto mediante l’azione risarcitoria e inibitoria come si prevede per ogni altro diritto soggettivo perfetto.

Non devono trascurarsi, inoltre, i diritti esercitabili dal soggetto-assistito con riferimento alla disciplina (ora novellata dalla l. n. 15/2005) della riforma del procedimento amministrativo (l. n. 241/1990, e succ. mod. e integr.). Né vanno trascurati, in tale ottica di garanzia informativa e partecipativa, gli strumenti di standardizzazione dei LEP, intesi come “valori misurabili, idonei a soddisfare i bisogni che si assumono meritevoli di tutela”. Tali valori non riguardano il solo contenuto materiale essenziale da garantire ma anche le relative modalità, ambedue costituendo uno standard che è parimenti invocabile dal soggetto in sede di tutela giurisdizionale. Di norma, le Carte di servizio sanitarie si presentano come uno degli strumenti più qualificati rispetto a tale finalità, essendo appunto previste per assicurare una forma di tutela alla qualità della prestazione cui il soggetto-assistito ha diritto. La loro violazione, che poi altro non significa che la violazione dei contenuti materiali della prestazione da assicurarsi, e come tale autonomamente eccepibile dinanzi ad un giudice, è sanzionata con misure di indennizzo automatico e preventivo.

3. Salute e assistenza sociale fra diritti (esigibili) e politica (politiche sociali). Alcuni cenni

Nel loro concentrarsi principalmente sulla ‘tutela della salute’ – come materia specifica di competenza regionale concorrente nel novellato assetto delle competenze regionali – le osservazioni appena svolte sottolineano prospettive e limiti del nuovo Welfare repubblicano, che, in realtà, troverà compiuta attuazione solo a seguito della legislazione di attuazione dell’art. 119 Cost. (c.d. federalismo fiscale). Alla stessa valorizzazione di tale nuovo Welfare concorre infatti (unitamente alla salute) anche la materia della assistenza sociale10 che, non rientrando nella elencazione delle competenze concorrenti delle regioni, rientra nella piena competenza esclusiva/residuale delle stesse (seppure queste ultime possano considerare, a mo’ di legislazione statale di principio, le opzioni/previsioni normative della l. n. 328/2000). A questa ultima disciplina, anche in ragione delle peculiarità che ne hanno fin qui caratterizzato il regime giuridico, saranno ora dedicate alcune essenziali riflessioni volte a sottolineare i limiti generali conosciuti in materia di attuazione legislativa dell’art. 38, I co., Cost., nonché la significativa disorganicità della disciplina attuativa di favore. In realtà, il “diritto al mantenimento e all’assistenza sociale” dei cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere, disciplinato nell’art. 38, I co., Cost., nel settantennio che abbiamo lasciato alle spalle conosce due principali letture/interpretazioni: una prima, che attrae la disciplina di favore nella materia previdenziale, e una seconda, nella quale si coglie un favor esplicito per i ‘lavoratori’, mentre i ‘cittadini’, nella loro condizione di ‘soggetti deboli’ restano affidati sostanzialmente all’ambito delle politiche sociali, intese come erogazione di servizi alla persona e alla comunità, compatibilmente alla disponibilità delle risorse assegnate a tale scopo (ieri dallo Stato ed oggi anche dalle regioni).

Rispetto ai diversi e possibili approcci alle politiche pubbliche nell’ottica qui proposta, i servizi sociali devono cogliersi per ciò che nella realtà amministrativa essi sono effettivamente, e cioè prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche (ed ora anche a gestione privata, sulla base del principio di c.d. sussidiarietà orizzontale) in tema di diritti costituzionalmente tutelati. Nel nostro ordinamento, i servizi sociali, quindi, costituiscono una forma di attuazione amministrativa (sussidiaria) dei diritti sociali. Introdotti nel costituzionalismo contemporaneo del secondo dopoguerra, questi ultimi sono da cogliersi, come è noto, come pretese costituzionalmente garantite dei soggetti ad ottenere dallo Stato (ora dalla Repubblica) determinate prestazioni volte ad assicurare mediante l’accesso ai competenti servizi amministrativi l’appagamento del relativo bisogno e con esso la garanzia dell’eguaglianza sostanziale fra i cittadini. In tal senso, essi costituiscono una novità (e al tempo stesso una sfida) dello Stato costituzionale contemporaneo volte ad assicurare l’indissolubile integrazione fra libertà ed eguaglianza, in una parola la ‘giustizia sociale’. L’analisi dell’attuazione di tale quadro normativo – come si è già osservato – descrive uno scenario di gradualità nella legislazione in materia e, più in generale, di una protezione peculiarmente rafforzata per il soggetto ‘lavoratore’, mentre le altre situazioni di minorità sociale restano ancorate ad una risalente cultura di ‘beneficenza pubblica’, quindi debitrici nel fondo di una cultura ‘caritatevole’, ‘assistenzialistica’ e ‘paternalistica’ dello Stato/Repubblica.

Nel costituzionalismo italiano (con formule differenziate), come più in generale in quello europeo, in tale prospettiva, risulta pienamente positivizzato uno stretto rapporto fra concezione della cittadinanza e diritti fondamentali fondato sulla garanzia e sull’ampliamento delle situazioni giuridiche costituzionalmente protette e su una nuova concezione del concetto di eguaglianza, capace di assicurare, oltre al superamento delle discriminazioni formali, una politica di inclusione dei soggetti deboli. Più complessa appare l’analisi con riferimento allo stesso statuto eurounitario di tali diritti – la ‘cittadinanza sociale’ eurounitaria – e delle relative garanzie rispetto agli ordinamenti costituzionali nazionali. Come è stato altrove osservato, la disciplina eurounitaria dei diritti sociali – anche se considerata dalla prospettiva de jure condendo – appare contrastare nel fondo con la loro concezione negli ordinamenti costituzionali nazionali (fra cui soprattutto quello italiano, quello spagnolo e quello tedesco), ponendo complesse e (forse) irrisolte questioni, come sottolineato dalla dottrina dei ‘controlimiti’. Anche a partire da tale riflessione è da chiedersi come il ‘nuovo’ quadro costituzionale previsto per le regioni e per le autonomie locali, in Italia, si rapporti a tali princìpi, dovendosi chiaramente assumere che l’architettura costituzionale della ‘Repubblica’ risulta significativamente innovata rispetto all’ordinamento costituzionale previgente, nel quale l’ambito costituzionale delle competenze legislative regionali poco (o nulla) incideva sullo statuto della cittadinanza.

Riprendendo l’analisi con specifico riferimento al nuovo scenario disegnato dal legislatore di revisione costituzionale, è da sottolinearsi come, nella prospettiva del nuovo welfare (ora maggiormente territorializzato), ogni soggetto nel corso della vita può trovarsi ad essere soggetto debole; per tali condizioni di debolezza la Repubblica è chiamata a provvedere alla soddisfazione dei bisogni primari (nel campo dell’istruzione, della tutela della salute, dell’assistenza sociale, del reddito minimo di sopravvivenza, della casa, ecc.) secondo standard definiti in modo uniforme, in modo tale da assicurare l’essenzialità delle prestazioni volte a risolvere/superare i diversi bisogni del soggetto. Tale opzione, secondo un indirizzo risalente, mutuato dall’esperienza britannica, si prefigge, in sostanza, di dar vita ad un sistema universale e integrale di protezione sociale pubblica volta a garantire la sicurezza di tutti i cittadini dalla nascita alla morte, con l’obiettivo dichiarato di perseguire finalità di ‘liberazione dal bisogno’, contro la logica ‘caritatevole’ dello Stato liberale e quella ‘organicistico-autoritaria’ dello Stato totalitario (fascismo). L’intensità di tale modello si piega poi, in Italia come negli altri Paesi europei, alle esigenze consensuali proprie del sistema politico-istituzionale, spesso coniugandosi, in passato, con politiche finanziarie di deficit spending e comunque concentrandosi su tre principali àmbiti materiali (pensionistico, sanitario e istruzione pubblica, in quest’ultima includendosi talora la stessa istruzione universitaria). In una prima osservazione di sintesi, così, può rilevarsi che lo Stato sociale, a partire dal secondo dopoguerra, ha realizzato importanti successi nel campo delle politiche pubbliche relative ai diritti sociali e in particolare nelle materie appena richiamate. La natura e la stessa intensità dell’intervento legislativo nelle altre materie ricadenti nell’ambito delle politiche sociali sono state significativamente diverse.

In tale innovato quadro costituzionale, alla legge dello Stato compete la disciplina dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali, in modo da assicurare che ai princìpi della unitarietà e indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.) corrisponda un trattamento giuridico eguale di tutti i cittadini, assicurando in tal modo la cittadinanza unitaria e sociale. Il legislatore di revisione costituzionale, in tal senso, ha assegnato allo Stato-Governo il potere/facoltà di far valere tale unitarietà di trattamento come conseguenza obbligata dell’unità giuridica dell’ordinamento. A tal fine, il Governo è chiamato ad esercitare un potere di controllo sostitutorio nei confronti degli organi delle regioni, delle province e dei comuni ogni qualvolta lo richieda, in particolare, la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali e la loro garanzia, a prescindere dai confini territoriali dei governi locali. Nel relativo esercizio, il Governo, come prevede la stessa l. n. 131/2003 di attuazione della riforma del tit. V Cost, potrà adottare i provvedimenti necessari, anche normativi, ovvero nominare un apposito commissario. In conclusione, così, alla sola legge dello Stato compete di assicurare l’inderogabile principio di eguaglianza dei cittadini, mentre alla legge regionale spetta di farsi carico, con innovato protagonismo, delle competenze assegnate alle regioni, che sono sia concorrenti sia esclusive/residuali. Le prime, come è noto, assegnano alle regioni competenze limitate dal solo rispetto dei princìpi fondamentali della materia fissate con legge dello Stato; le seconde assicurano alle regioni piena libertà nella legislazione, fatto salvo il rispetto della Costituzione (e pertanto dei princìpi supremi e dei diritti costituzionali positivizzati nella prima parte della stessa), nonché il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Tali limiti, peraltro, sarebbero risultati risolutivi anche nell’individuazione dell’àmbito e dei limiti della potestà legislativa regionale nella (non auspicata) ipotesi che il testo di revisione costituzionale (di ‘riforma della riforma’, nel 2016), a suo tempo adottato, avesse concluso positivamente il suo iter d’integrazione dell’efficacia. Un simile scenario avrebbe comportato che le scelte regionali in materia sanitaria potesse conoscere l’inevitabile censura della Corte ogni qualvolta le regioni avessero voluto seguire nella loro legislazione percorsi asimmetrici rispetto ai livelli essenziali delle prestazioni definiti con legge statale o comunque tali da mettere in questione il principio dell’eguaglianza anche interterritoriale, nonché quello della solidarietà tra i cittadini della Repubblica. Rispetto a tale quadro, si sarebbero potuti astrattamente determinare, infatti, soprattutto da parte delle regioni ‘economicamente forti’ (in quanto fiscalmente autonome), forti spinte volte alla differenziazione dei trattamenti, rispetto alla uniformità delle prestazioni previste dai LEA, potendo assistere così ad inevitabili affievolimenti dell’idea, un tempo quasi sacrale e intangibile, dei LEA in materia di diritti sociali.

4. Riparto territoriale delle competenze in materia sanitaria e problematiche (irrisolte) di coordinamento. Recenti indirizzi giurisprudenziali del Giudice delle leggi

Fra le molte tematiche discusse nel recente dibattito connesso alle (contrastate) misure contro la pandemia da Covid-19, una fra le altre si offre come fondamentale e al contempo di piena attualità, quella posta dalle risposte agli interrogativi sulle problematiche costituzionali sollevate dalla pandemia da Covid-19 con riguardo alla tutela del diritto fondamentale della salute nel quadro della presente forma di stato, che sulla base del testo costituzionale cogliamo come costituzionalmente unitaria, a base regionale, – una tematica quest’ultima che informa di sé lo stesso sistema delle fonti del diritto.

In tale prospettiva, la riflessione trova materiale adeguato di approfondimento nella recente pronuncia del Giudice delle leggi (sent. 37/2021) emessa nel giudizio di legittimità costituzionale concernente diverse disposizioni della legge della Regione Valle d’Aosta n. 11, del 2020, ma anche nella sent. cost. 198/2021, in tema di rapporti fra decreti-legge e decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri. In tale prospettiva, nella sent. 37/2021 (considerato in diritto n. 7) si contengono argomentazioni fondamentali, in particolare, ai fini della risoluzione della questione sollevata nel ricorso alla Corte relativamente alla delimitazione delle competenze fra Stato e regioni in materia di ‘profilassi internazionale’. Un essenziale richiamo dei passaggi centrali all’interno di tali argomentazioni può risultare senz’altro appropriato nella prospettiva del ragionamento che si vuole ora seguire. Nel richiamato considerato in diritto n. 7, il Giudice delle leggi argomenta, in termini risolutivi rispetto al dubbio di costituzionalità sollevato innanzi alla sua giurisdizione, come il novellato art. 117 Cost. (II co., lettera q) – sulla base della diffusività che connota la malattia pandemica – confermi “nella sfera della competenza legislativa esclusiva dello Stato la cura degli interessi che emergono innanzi ad una malattia pandemica di larga distribuzione geografica, ovvero tale da dover essere reputata internazionale”. Quanto alle questioni poste dalla esigenza di tutelare il diritto alla salute e al contempo l’interesse della collettività, in tale ottica, come argomenta in modo convincente la Corte, “ragioni logiche, prima che giuridiche (sent. n. 5 del 2018)[https://www.giurcost.org/decisioni/2018/0005s-18.html] radicano nell’ordinamento costituzionale l’esigenza di una disciplina unitaria, di carattere nazionale, idonea a preservare l’uguaglianza delle persone nell’esercizio del fondamentale diritto alla salute e a tutelare contemporaneamente l’interesse della collettività (sentt. n. 169 del 2017,[https://www.giurcost.org/decisioni/2017/0169s-17.html] n. 338 del 2003 [https://www.giurcost.org/decisioni/2003/0338s-03.html] e n. 282 del 2002) [https://www.giurcost.org/decisioni/2002/0282s-02.html]”. Ogni decisione in tale materia – prosegue ancora la Corte – per quanto di efficacia circoscritta all’ambito di competenza locale, ha un effetto a cascata, potenzialmente anche significativo, sulla trasmissibilità internazionale della malattia, e comunque sulla capacità di contenerla, seguendone che una strategia sanitaria che non si prefigga “di spezzare la catena del contagio su scala territoriale minore, mancando di dispiegare le misure a ciò necessarie, equivale a permettere che la malattia dilaghi ben oltre i confini locali e nazionali”. Di qui, la motivazione aggiuntiva delle connessioni evidenti tra i profili ascrivibili alla competenza esclusiva dello Stato e quelli ascrivibili alle competenze concorrenti delle regioni in tema di tutela del diritto fondamentale della salute e della protezione civile. Per la Corte, ne consegue in modo logico che “le autonomie regionali, ordinarie e speciali, non sono quindi estranee alla gestione delle crisi emergenziali in materia sanitaria ... In particolare, spetta anche alle strutture sanitarie regionali operare a fini di igiene e profilassi, ma nei limiti in cui esse si inseriscono armonicamente nel quadro delle misure straordinarie adottate a livello nazionale, stante il grave pericolo per l’incolumità pubblica … Se, dunque, sono le strutture sanitarie regionali ad adoperarsi a fini profilattici, resta fermo che, innanzi a malattie contagiose di livello pandemico, ben può il legislatore statale imporre loro criteri vincolanti di azione, e modalità di conseguimento di obiettivi che la medesima legge statale, e gli atti adottati sulla base di essa, fissano, quando coessenziali al disegno di contrasto di una crisi epidemica”.

Rispetto ad un indirizzo giurisprudenziale tanto chiaro e articolato – quanto ai titolari del potere che ne sono riguardati (lo Stato e le regioni, in modo differenziato) – può risultare comprensibile la ragione per la quale – nel quadro più ampio di una forma di Stato unitaria a base regionale, nella quale il principio pluralistico a livello territoriale non può certo pregiudicare i fondamentali princìpi unitari e di indivisibilità della Repubblica – può osservarsi che il tema dal quale muovere al fine di proporre alcune riflessioni di sintesi sulle tematiche in tema di distribuzione dei poteri (fra lo Stato e le regioni) con riguardo alla materia sanitaria sia appunto quello posto dalle risposte agli interrogativi sulle problematiche costituzionali sollevate da ultimo dalla pandemia da Covid-19 relativamente alla tutela del diritto fondamentale della salute (art. 32 Cost.) e ai soggetti sui quali grava l’onere della sua tutela.

Con riguardo alle tematiche costituzionali poste dalla effettività dei valori personalistici e dei diritti fondamentali, pertanto, due principali problematiche si sono imposte all’attenzione generale nei due anni (tragici) appena lasciati alle spalle e che ora, in modo positivo, sembrano aprirsi a più di una prospettiva ottimistica in ragione dei progressi scientifici della ricerca farmaceutica (con la sperimentazione di nuovi farmaci anti-Covid) e con essa della disponibilità (e della stessa maggiore efficacia) dei vaccini, che sta già assicurando (sia pure con sacche di resistenza impenetrabili e del tutto insensate) una protezione diffusa (ancorché non ancora piena e definitiva).

In tema, come si può osservare alla lettura delle argomentazioni della Corte, così, un primo tema è costituito dalle incertezze in tema di distribuzione delle competenze in tema di tutela della salute fra Stato e regioni. Incertezze in buona misura originate dalla revisione del titolo V Cost., per come talora interpretato dalla prospettiva regionale in una ottica di presidenzialismo ‘strisciante’ che, più che alla leale collaborazione, nella prassi, si è ispirato ad una competizione fra centro e periferia viepiù crescente con il passare dei mesi e con lo stesso acuirsi della diffusione della pandemia, e che hanno concretamente imposto alle magistrature amministrative l’onere di occuparsi dell’esercizio del potere di ordinanza da parte dei vertici degli esecutivi (regionali e locali), procedendo all’annullamento di più di un’ordinanza adottata dai Presidenti regionali ma anche di alcune ordinanze dei Sindaci. Una questione – quest’ultima – che viene ora chiarita in modo definitivo dalla già richiamata sentenza della Corte costituzionale (n. 198/2021), in tema di rapporti fra d.l. e dpcm, le cui argomentazioni invero erano state già puntualmente sottolineate dalla maggioritaria dottrina.

Con riguardo alle pretese legislative della Regione Valle d’Aosta, nella già richiamata sentenza n. 37/2021, il Giudice delle leggi ha potuto chiarire in modo che non potrà più costituire oggetto di conflitto di poteri l’ambito materiale consentito alla competenza regionale in tema di ‘tutela della salute’. Lo ha fatto ribadendo – con riguardo al parametro costituzionale delle disposizioni costituzionali invocate nel giudizio – come la materia oggetto del contrastato intervento legislativo regionale oggetto del ricorso ricadesse nella competenza legislativa esclusiva dello Stato a titolo di ‘profilassi internazionale’ (art. 117, secondo comma, lettera q, Cost.), materia questa – come la Corte sottolinea – “comprensiva di ogni misura atta a contrastare una pandemia sanitaria in corso, ovvero a prevenirla”.

Il tema centrale, in tal modo, si incentra sulle relazioni fra funzioni pubbliche e garanzie concrete dei diritti della persona. Diritti che, nel caso della tutela della salute – e lo stesso potrebbe dirsi per altri fondamentali diritti sociali (come, fra gli altri, ad es., il diritto alla istruzione degli alunni disabili, oggetto di una coraggiosa decisione della Corte nella sentenza n. 275/2016) – possono ben cogliersi nel loro connotare nel fondo la stessa effettività democratica di uno Stato sociale (con la connessa accountability della relativa mission di Stato costituzionale). Uno Stato che, per essere rispettoso dei Princìpi fondamentali sanciti nelle disposizioni costituzionali (in particolare negli artt. 2 e 3 che fissano le basi costituzionali sul trinomio dignità-solidarietà-eguaglianza) deve assicurare a tutti i soggetti (cittadini e non solo) l’ampio catalogo di diritti fondamentali accolti nella prima parte della Costituzione repubblicana, a partire dalla eguaglianza interpersonale e interterritoriale fra i soggetti.

In un quadro giuridico nel quale il diritto alla salute risulta pienamente garantito se le pretese prestazionali sanitarie del soggetto (di tipo preventivo, curativo e riabilitativo, secondo tipologie di finalità generali disciplinate dalla legge n. 833/1978) rivolte alle amministrazioni competenti ad erogare i relativi servizi di cura e di assistenza sono pienamente assicurate, parlare di effettività del diritto fondamentale alla salute impone, pertanto, di affrontare in modo puntuale il tema della distribuzione delle competenze (e delle connesse responsabilità) fra i diversi livelli istituzionali della Repubblica (statale e regionale). Una distribuzione delle competenze – quest’ultima – che è funzione della stessa chiarezza nell’allocazione costituzionale delle competenze e nella stessa gerarchia delle responsabilità in ciò che per la Costituzione è fondamentale; in breve, della stessa effettività del diritto alla salute (come di tutti gli altri diritti sociali). Una incerta ripartizione delle stesse – questo è quanto il Covid-19 sembra aver portato in evidenza all’attenzione dei cittadini (increduli e impauriti) e degli stessi studiosi del regionalismo – comporta incertezze e rischi di confusione, foriere di irresponsabilità oggettive delle amministrazioni competenti, da una parte, e venir meno delle garanzie di effettività del fondamentale diritto alla salute, dall’altra. Ora, quando si parla di compiti regionali in materia sanitaria (secondo la specifica previsione legislativa delle funzioni di previsione, di cura e di riabilitazione sanciti nella legge n. 833/1978), occorre riflettere soprattutto alle forme di tutela della salute anche in ragione delle modalità della distribuzione delle competenze in materia fra Stato e regioni (che, nelle previsioni della riforma costituzionale del titolo V, appare per molti profili incerta e ‘confusa’, per come la prassi amministrativa e sanitaria del contrasto del Covid-19 ha evidenziato), non dimenticando le stesse competenze dell’OMS, da una parte, e quelle delle autorità locali, dall’altra, con l’esercizio del potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti da parte dei sindaci. Quanto osservato fin qui, tuttavia, potrebbe interessare poco il cittadino al momento di accedere alle prestazioni sanitarie e assistenziali relative alla tutela della sua salute, quando quest’ultima venga meno (in modo più o meno grave) ma soprattutto al momento in cui la salute, non più solo quella della singola persona ma quella della intera collettività (la salute pubblica appunto) venga riguardata da un grave attacco pandemico, come il Paese sta tuttora sperimentando.

Una simile riflessione deve essere capace di individuare i nodi più significativi che la cronaca ha ora sottoposto con sofferenza alla conoscenza del Paese. Tali nodi, invero, non riguardano il mero tema delle responsabilità quanto piuttosto quello – altrettanto rilevante – della confusione dei poteri che il Paese ha avuto modo di conoscere al momento di interrogarsi (soprattutto ma non solo) sulla allocazione territoriale e sulla relativa spettanza delle competenze nell’adozione dei piani anti-epidemici e di protezione della salute pubblica a valle delle indicazioni di morbilità virale pervenute dall’OMS e al momento di interrogarsi sulla spettanza della competenza in tema di acquisizione dei fondamentali presidi sanitari (soprattutto dei ventilatori polmonari ma più in generale di tutti i presidi sanitari e farmacologici che la scienza medica assume essere assolutamente necessari per le finalità di contrasto della pandemia oltre che per la tutela della salute individuale e collettiva), la cui carenza è risultata pari alla loro necessarietà e indefettibilità nei diversi presidi ospedalieri e nelle strutture sanitarie diffuse del sistema sanitario regionale, anche nell’ottica del sostegno sussidiario alle note fragilità di alcune delle sue componenti territoriali e dei connessi riflessi sulla effettività della tutela della salute.

La distribuzione asimmetrica di tali supporti e l’intera organizzazione sanitaria (nelle regioni del nord e del sud), in una simile prospettiva, nella concretezza della osservazione da parte dei soggetti, per più profili, costituisce una vera e propria ‘pietra di inciampo’ nella cornice di un Paese (che si assume) ‘unitario’ da 170 anni a questa parte, e ‘sociale’ a partire dalla Costituzione repubblicana. La questione, come si osserva, non è di poco momento avendo concreto riguardo (talora) allo stesso venire meno – non solo di una ordinaria adeguatezza della funzione sanitaria e assistenziale da parte del sistema sanitario regionale – di una necessaria funzione programmatoria nella organizzazione del servizio di prevenzione a livello di rapporti fra Ministero della Salute, ISS e sistema regionale.

Alla luce di quanto richiamato, occorre osservare come il criterio da seguire nell’auspicato (forse non ulteriormente rinviabile) riordino delle competenze del complesso ordinamento Stato-regioni non potrà che favorire il livello statale ogni qualvolta il livello del bene giuridico meritevole di protezione – la salute come diritto fondamentale della persona e interesse della collettività, per quanto oggetto di analisi in questo testo – riguardi un ambito eminentemente generale e per questo di competenza statale. Ripensare il regionalismo, come talora si pretende nella opinione pubblica ed in una parte della stessa dottrina giuridica, non sarà facile nel quadro della tendenza in atto nella quale è dato registrare come più di un Presidente di Giunta regionale, auto-assimilatosi in modo inappropriato, abbia preteso di esercitare funzioni di capo di Governo, ma la ‘fondamentalità’ dei diritti fondamentali – e fra questi il diritto alla salute – non potrà continuare a sottacere le significative problematiche della loro effettività i cui limiti anche (ma non solo) negli anni più recenti sono di piena evidenza. Seguendo il criterio di cui si è già detto, quello cioè della fondamentalità e della indivisibilità dei diritti fondamentali, pertanto, si comprende come il Servizio Sanitario (SSN) debba essere effettivamente nazionale nella disciplina delle situazioni giuridiche e regionale nella relativa modulazione/organizzazione territoriale dei suoi servizi, nella convincente ottica di attuazione del principio di sussidiarietà. In tale prospettiva, le regioni non potevano essere immaginate dal costituente repubblicano come il livello più adeguato a farsi carico di servizi pubblici all’altezza della garanzia della uguaglianza dei cittadini. Averlo pensato e praticato in una revisione costituzionale (quella del 2001) si è rivelato ampiamente difettoso rispetto alla sfida della complessità e alla esigenza di garantire in modo effettivo beni indefettibili in democrazia, come l’eguaglianza di tutti in ciò che è fondamentale. E i diritti fondamentali (e fra essi la tutela della salute) tali sono appunto nell’inquadramento che ne fa la Costituzione. Naturalmente, analisi omologa dovrebbe farsi per l’insieme degli altri princìpi costituzionali e diritti fondamentali della persona.

Il criterio da seguire nella ‘manutenzione costituzionale’, pertanto, – come la Corte ha ribadito nelle sentenze da ultimo richiamate (n. 37/2021, n. 198/2021) – non potrebbe che favorire, in una ottica che è (fattualmente e costituzionalmente) di sussidiarietà verticale, il livello decisionale statale ogni qualvolta il livello del bene (giuridico) costituzionale meritevole di protezione – il diritto fondamentale alla salute nella sua dimensione individuale e collettiva – riguardi un ambito eminentemente generale e per questo di ambito statale, in virtù di una clausola che in tutte le democrazie viene comunemente qualificata come “clausola di supremazia”, anche se – come si è già osservato – già ora il testo costituzionale permette e garantisce la possibilità che lo Stato possa intervenire (anche in sostituzione) per tutelare l’uniformità dei (e nei) diritti (ai sensi dell’art. 120 Cost.). La situazione emergenziale (tuttora in essere ancorché, per come già osservato, in forme meno aggressive rispetto agli esordi della pandemia), come pare potersi evidenziare in una riflessione di sintesi conclusiva, consegna una visione plastica di ciò che è la situazione ordinaria … una situazione che (in special modo per le regioni meridionali, ma non solo, per come la confusione gestionale nella sanità lombarda ha evidenziato almeno durante il primo dei due anni di contrasto della diffusione della pandemia) appare perennemente in piena emergenza. È in un simile quadro che s’impone alla politica (nella fattispecie, alla politica sanitaria) un’attenta valutazione delle ‘priorità costituzionali’, e la salute, così come l’istruzione e l’assistenza sociale (fra gli altri diritti sociali fondamentali), devono avere (nello spirito e secondo il testo della Costituzione) una prevalenza sulle logiche dell’economia e delle esigenze sociali. E tanto anche per non dequotare come una mera petitio principii quella convincente affermazione argomentata nella recente, già richiamata, sentenza della Corte costituzionale, per la quale – quando si riguardi in particolare al bilanciamento fra beni parimenti meritevoli costituzionalmente di protezione – “è la garanzia incomprimibile [dei diritti sociali fondamentali] ad incidere sul bilancio e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione” (sent. n. 275/2016).

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Nota

1 Fra gli altri, cfr. anche Gambino, 2014b, nonché Gambino, 2019a, cui adde, almeno, Jorio, 2012.

2 Chessa, 2007; Anzon, 2007; Caretti, 2007; Mangia, 2007; Passaglia, 2007; Belvedere, 2007.

3 Nella sostanziale nebulosità, allo stato, dell’indirizzo politico-legislativo in materia del Governo Draghi, il tentativo più organico è costituito dalla Bozza (Boccia) di legge quadro contenente i principi per l’attribuzione alle Regioni di forme e condizioni particolari di autonomia e le modalità di definizione dei LEP (livelli essenziali delle prestazioni) e degli obiettivi di servizio. Il testo è anche disponibile in www.astridonline.it.

4 L’opoldo Elia, Audizione da parte della I commissione permanente del Senato, nel quadro dell’Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento della revisione del titolo V della parte II della Costituzione (seduta del 23 ottobre 2001).

5 In tema, cfr. Gambino, 2018a.

6 Dogliani, 1982; Zagrebelsky, 1992.

7 In tema, cfr. Gambino, 2009a.

8 Ceffa, 2019; Gambino, 2002.

9 Nell’ampia bibliografia cfr. almeno Chieffi, 2003; Balduzzi, 2004; Gambino, 2003, 2005; Jorio, 2005.

10 Jorio, 2006; Gambino, 2004; Castelli, Gambale, Menichetti & Procaccini, 2002.

Author notes

* Catedrático de Derecho Constitucional Comparado (emérito)

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Cómo citar : Gambino, S. (2022). Riforma regionale, tutela della salute, Corte costituzionale. L’esperienza italiana alla luce delle revisioni costituzionali (del 1999/2001). Revista Estudios Jurídicos. Segunda Época, 22, e7428. https://doi.org/10.17561/rej.n22.7428

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Revista de Estudios Jurídicos
ISSN: 1576-124X

Num. 22
Año. 2022

Riforma regionale, tutela della salute, Corte costituzionale. L’esperienza italiana alla luce delle revisioni costituzionali (del 1999/2001)

Silvio Gambino
Universidad de Calabria,Italia
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