COSTITUZIONE GENETICA DELLO STATUTO ALBERTINO

Angelo Grimaldi

COSTITUZIONE GENETICA DELLO STATUTO ALBERTINO

Revista de Estudios Jurídicos, no. 23, 2023

Universidad de Jaén

CONSTITUCIÓN GENÉTICA DEL ESTATUTO ALBERTINO

GENETIC CONSTITUTION OF THE STATUTO ALBERTINO (ALBERTINE STATUTE)

Angelo Grimaldi *

Università di Bologna, Italia


Ricevuto: 04 maggio 2023

Accettato: 10 maggio 2023

Riassunto: Il disegno costituzionale albertino cristallizza formalmente, come le altre Carte Costituzionali europee, l’organo “complesso”, costituito dal re e dal parlamento, nel quale l’influenza di un potere sulla funzione dell’altro era esercitabile solo ex post, ma recepiva anche il controllo preventivo delle Camere e il conseguente rapporto di fiducia tra le Camere e il Governo. In questo impianto costituzionale il re assume un nuovo ruolo, la controfirma ministeriale vale ad esonerare il Re, Capo di Stato, dalla responsabilità dei suoi atti ma non lo spossessa di ogni potere effettivo: rimane titolare di un’autonoma competenza distinta da quella governativa. Anche lo Statuto Albertino non si sottrae al percorso logico determinato dall’identità genetica che collega tra loro le Costituzioni e le esperienze costituzionali europee. Stabilendo che i ministri possano essere parlamentari, pone la prima condizione del sistema parlamentare. La Camera elettiva rivendicherà il diritto di iniziativa e di poter modificare le leggi. La costituzione genetica dimostra che tutte le Costituzioni, indipendentemente dalla loro legittimazione politica sottesa, hanno partecipato allo sviluppo ed affermazione di un assetto costituzionale conforme ai principi dell’ordinamento parlamentare. Possiamo quindi parlare di un denominatore costituzionale comune che imprime un’impronta parlamentare a tutte le Costituzioni e che le lega tra loro.

Parole chiave: Responsabilità politica; irresponsabilità regia; ministri parlamentari; identità genetica delle Costituzioni; ordinamento parlamentare; denominatore costituzionale comune.

Resumen: El diseño constitucional albertino cristalizó formalmente, al igual que las demás cartas constitucionales europeas, en un organismo «complejo» formado por el rey y el parlamento. En él, la influencia de un poder sobre la función del otro solo podía ejercerse «a posteriori», si bien también incorporó el control preventivo de las cámaras y la consiguiente relación de confianza entre estas y el Gobierno. Bajo esta configuración constitucional, el rey asume un nuevo papel. El refrendo ministerial es válido para eximir al rey, jefe del Estado, de la responsabilidad de sus actos, pero no le despoja de todo poder efectivo. De este modo, sigue siendo titular de una competencia autónoma distinta de la del Gobierno. El propio Estatuto Albertino no escapa al camino lógico determinado por la identidad genética que vincula las constituciones europeas y las experiencias constitucionales. Al establecer que los ministros puedan ser parlamentarios, fija la primera condición del sistema parlamentario. La cámara electiva reclamará el derecho de iniciativa y el derecho a enmendar las leyes. La constitución genética demuestra que todas las constituciones, independientemente de su legitimidad política subyacente, han participado en el desarrollo y la afirmación de un acuerdo constitucional conforme a los principios del ordenamiento parlamentario. Por lo tanto, podemos hablar de un denominador constitucional común que imprime una huella parlamentaria en todas las constituciones y las vincula entre sí.

Palabras clave: Responsabilidad política; irresponsabilidad del rey; ministros parlamentarios; identidad genética de las constituciones; ordenamiento parlamentario; denominador común constitucional.

Abstract: The Albertine constitutional design formally crystallises, like the other European Constitutional Charters, the "complex" body, consisting of the king and the parliament, in which the influence of one power over the function of the other could only be exercised ex post, but also included the prior control of the Chambers and the consequent relationship of trust between the Chambers and the Government. In this constitutional system, the King takes on a new role. The ministerial countersignature is valid to exempt the King, Head of State, from responsibility for his acts but does not divest him of all effective power: he remains the holder of an autonomous competence distinct from that of the government. Even the Albertine Statute does not escape the logical path determined by the genetic identity interconnecting European constitutions and constitutional experiences. By establishing that ministers can be parliamentarians, it sets the first condition of the parliamentary system. The Elective Chamber will claim the right of initiative and the ability to modify the laws. The genetic constitution shows that all constitutions, regardless of their underlying political legitimacy, have participated in the development and affirmation of a constitutional arrangement in accordance with the principles of the parliamentary system. We can therefore speak of a common constitutional denominator that imprints a parliamentary imprint on all Constitutions and binds them together.

Keywords: Political responsibility; royal irresponsibility; parliamentary ministers; genetic identity of constitutions; parliamentary system; common constitutional denominator.

SOMMARIO

I. Introduzione. II. Quadro storico di riferimento. 1. La carta francese del 4 giugno 1814. 2. La Costituzione olandese del 1815. 3. La Carta francese del 14 agosto 1830. 4. La Costituzione belga del 1831. 5. La Costituzione del Regno delle Due Sicilie del 10 febbraio 1848. III. Lo Statuto albertino. 1. Il re incarna la Nazione. 2. Carattere oligarghico del sistema costituzionale. 3. Responsabilità politica, irresponsabilità regia e regime parlamentare. Le convenzioni costituzionali. 4. Dal formale ordito triadico al regime dualistico. IV. Costituzione genetica della Carta albertina. Conclusioni. V. Bibliografia.

I. INTRODUZIONE

Lo Statuto albertino fu concesso il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto. Non presenta istituti originali, ma si inserisce nell’alveo delle Costituzioni “ottriate” o “ottorgate” per distinguerle da quelle emanate da un’Assemblea Costituente (Lacché, 2010, pp. 272-305).

Lo Statuto albertino rappresentò una riforma della monarchia assoluta in senso liberale. Il re fu indotto a concedere lo Statuto dalle condizioni storiche che si erano determinate in tutta l’Europa nel 1848. La grande paura di un possibile sconvolgimento sociale costrinse il re a stabilire un patto con la borghesia. Il re rinunciò alla sua precedente posizione di sovrano assoluto e acconsentì da quel momento a diventare un sovrano costituzionale, dotato solo dei poteri che la Costituzione da lui emanata gli attribuiva.

Il Consiglio di Conferenza si ispirò alla Carta Costituzionale del 4 giugno 1814 concessa da Luigi XVIII, alla Carta Costituzionale del 14 agosto 1830 giurata da Luigi Filippo e alla Costituzione belga promulgata il 7 febbraio 1831, ma anche alla Costituzione olandese del 1815.

Prima di esaminare la struttura dello Statuto albertino facciamo un passo indietro per riflettere, seppur brevemente, sulle caratteristiche costituzionali in comune con le altre Costituzioni (ed esperienze costituzionali) continentali europee (Ghisalberti, 2006, pp. 19-26).

II. QUADRO STORICO DI RIFERIMENTO: LA CARTA FRANCESE DEL 4 GIUGNO 1814, LA COSTITUZIONE OLANDESE DEL 1815, LA CARTA FRANCESE DEL 14 AGOSTO 1830, E LA COSTITUZIONE BELGA DEL 1831. LA COSTITUZIONE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DEL 10 FEBBRAIO 1848.

1. La Carta francese del 4 giugno 1814

Dopo il Congresso di Vienna Luigi XVIII in Francia promulgò il 4 giugno 1814 una Carta costituzionale elaborata da una commissione nominata dal re. Questa Carta differiva da quella votata dal Senato il 6 aprile 1814 (la Carta del 4 giugno fu preceduta da una Costituzione votata dal Senato imperiale e mai applicata) su due aspetti fondamentali. Per la Carta del 4 giugno la monarchia esisteva indipendentemente dalla nazione, mentre per il Senato la nazione “chiamava” la monarchia e la Costituzione costituiva un complesso di regole imposte al re. La Costituzione, per il Senato imperiale, assumeva la forma di un contratto tra il re e la nazione. Per la Carta voluta, invece, da Luigi XVIII, la Costituzione rappresenta soltanto una concessione graziosa del re1 che elargisce alla nazione alcune garanzie e libertà: uguaglianza davanti alla legge, libertà individuale, libertà di stampa, libertà religiosa, rispetto della proprietà privata.

Il re era a capo del potere esecutivo (“il Re è il Capo supremo dello Stato”, così inizia l’art. 14), nominava i ministri che potevano essere scelti in seno alle due camere (art. 54), la Camera dei Deputati dei dipartimenti, eletti per cinque anni con suffragio censitario e la Camera dei Pari, i cui membri sono designati dal re, sia a titolo ereditario che vitalizio. Per essere elettore, era necessario avere trent’anni e pagare trecento franchi di imposte, mentre per essere eleggibile bisognava avere quarant’anni e pagare mille franchi di imposte (suffragio ristretto).

La tendenza al sistema parlamentare è il secondo aspetto fondamentale della Carta del 4 giugno 1814. Il potere esecutivo e il potere legislativo agivano in collaborazione: il re partecipa alla funzione legislativa (art. 15: il potere legislativo viene esercitato collettivamente dal Re, dalla Camera dei pari e dalla Camera dei deputati dei dipartimenti), ha potere di iniziativa (art. 16) e solo il Re esercita il potere di sanzione: “Solo al Re spetta la sanzione e la promulgazione della Legge” (art. 22). Inoltre, il Re emana i regolamenti e le ordinanze necessarie per l’esecuzione delle leggi (art. 14), può convocare le Camere e sciogliere la Camera dei deputati (art. 50: “Il Re ogni anno convoca le due Camere; le proroga e può sciogliere quella dei deputati dei dipartimenti; ma in tal caso, deve convocarne una nuova entro il termine di tre mesi). La responsabilità dei ministri davanti alle Camere non è espressamente prevista dalla Carta: l’art. 13 dichiara che “La persona del Re è inviolabile e sacra, i suoi ministri sono responsabili”. Carre de Malberg sostenne che il principio della responsabilità politica di fronte ad un’Assemblea eletta, rappresenta la condizione essenziale del sistema parlamentare (Carré de Malberg, 1962, pp. 68 e ss.). Il Potere esecutivo appartiene solo al Re”, l’articolo non precisa davanti a chi i ministri sono responsabili, solo l’articolo 55 statuisce una “responsabilità giuridica” con la previsione della messa in stato d’accusa dei ministri da parte della Camera dei Deputati davanti alla Camera dei Pari, solo in questo caso in funzione di Alta Corte di Giustizia (“La camera dei Deputati ha il diritto di accusare i ministri, e di tradurli davanti alla Camera dei pari, la quale sola ha quello di giudicarli”). L’articolo 55 è collegato all’art. 33 che attribuisce alla Camera dei pari il giudizio sui delitti di alto tradimento e gli attentati alla sicurezza dello Stato.

Il sistema parlamentare non fu formalmente organizzato dalla Carta, la prassi costituzionale, nonostante alterne e contradditorie vicende politico-costituzionali (Cobban, 1972, pp. 317-376), tese ad introdurlo sotto la stessa influenza di Luigi XVIII. Il Re cercò di scegliere i ministri che avessero la fiducia delle Camere (le Camere, in assenza di un potere di interpellanza, non potevano manifestare il loro parere sulla politica del gabinetto, ma a partire dal 1817 la discussione del bilancio consentì di controllare tutta l'attività politico-amministrativa del governo).

Carlo X cercò di fermare la deriva del sistema francese verso il parlamentarismo; la scelta del primo ministro Jules de Polignac, personaggio ostile ai liberali, non rappresentava una violazione formale del testo della Carta del 1814, tuttavia indicava in modo chiaro un orientamento politico diverso da quello inaugurato da Luigi XVIII. La rivoluzione del 1830 riporta alla tradizione parlamentare che aveva avviato il Re Luigi XVIII.

2. La Costituzione olandese del 1815

Dall’istituzione del Regno nel 1814 con Atto finale del Congresso di Vienna del 9 giugno 1815, art. 65 (Anchieri, 1959, pp. 13-15) la Costituzione dei Paesi Bassi delinea, secondo autorevole dottrina, una forma di governo monarchico-costituzionale di tipo parlamentare (Bovend'Eert, Kortmann, 2018).

Formalmente il Re esercita il potere esecutivo (art. 56. “il potere esecutivo spetta al Re”) egli è parte non responsabile del governo (art. 55: Il Re è inviolabile. I ministri sono responsabili”), partecipa alla funzione legislativa (art. 73: “Il Re presenta agli Stati Generali progetti di legge e fa ad essi tutte le altre proposte che reputa convenienti. Egli ha il diritto di approvare i progetti di legge votati dagli Stati Generali”. L’articolo 74 disciplina la promulgazione delle leggi da parte del Re, mentre l’articolo 124 aggiunge: “Tutti i progetti di legge approvati dagli Stati Generali e sanzionati dal Re acquistano forza di legge e sono promulgati dal Re. Le leggi sono inviolabili”. Con l’articolo 75 la Costituzione attribuisce al re il diritto di sciogliere le Camere: “Il Re ha diritto di sciogliere le Camere degli Stati Generali, ciascuna separatamente o tutte e due insieme. Il decreto che pronuncia lo scioglimento ordina al tempo stesso l’elezione entro quaranta giorni di nuove Camere e la riunione entro tre mesi delle Camere nuove elette”.

Il potere legislativo è disciplinato dall’art.112 che stabilisce: “Il potere legislativo è esercitato in comune dal re e dagli Stati Generali”, l’art. 113 aggiunge: “Il Re trasmette le sue proposte di legge all’una o all’altra Camera con un messaggio scritto o per mezzo di una Commissione. Egli può incaricare commissari speciali da lui nominati di assistere i ministri nella discussione di queste proposte alle sedute degli Stati Generali”.

Il procedimento legislativo inizia sempre presso la seconda Camera: tutti i disegni di legge approvati da quest’ultima sono trasmessi alla prima Camera, che può soltanto approvare o respingere il testo trasmesso. La prima Camera gode di poteri più limitati rispetto alla seconda. Non dispone del potere di iniziativa legislativa né di emendamento. Si compone di 75 membri, eletti a suffragio indiretto dai componenti degli Stati provinciali (con metodo proporziale). La seconda Camera, composta da 150 membri, è eletta a suffragio universale con metodo proporzionale per un mandato di quattro anni. Esercita l’iniziativa legislativa, può emendare i disegni di legge, compresi quelli presentati dal governo.

3. La Carta costituzionale francese del 1830

Dopo una breve lettura dei fatti, che poi sfociarono nelle tre giornate di luglio 1830 (27, 28 e 29 luglio, le “trois glorieuses”), esamineremo la Carta costituzionale del 14 agosto 1830.

La rivoluzione di luglio 1830 scoppia a causa delle quattro ordinanze, emanate dal ministro Polignac ai sensi dell’articolo 14 della Carta del 1814, che sospendevano la libertà di stampa, scioglievano la Camera dei Deputati, modificavano il sistema elettorale e convocavano i collegi elettorali per il 13 settembre 1830.

Nelle elezioni del 1827 i liberali ottennero il maggior numero di seggi alla Camera dei Deputati. Nel novembre 1829 Carlo X (il fratello Luigi XVIII era deceduto il 16 settembre 1824) nominò come primo ministro il principe Jules di Polignac (ultra-royalistes, appartenente ai monarchici conservatori che propugnavano il ripristino della monarchia assoluta). In quegli anni si scontravano due opposte interpretazioni della Carta del 4 giugno 1814: per Carlo X, secondo una lettura puramente formale della Carta, la Corona aveva l’esclusivo diritto di scegliere liberamente i propri ministri, dall’altro i liberali, sostenevano che la scelta dei ministri da parte del sovrano, doveva ricadere su persone di fiducia delle Camere, in modo da raccogliere attorno al Gabinetto l’appoggio del parlamento, richiamando per questa via un comportamento istituzionale instaurato dal fratello Luigi XVIII, anche se non previsto dalla Carta del 1814 (come abbiamo visto prima, il regime parlamentare fu introdotto dalla prassi costituzionale sotto l’influenza di Luigi XVIII il quale cercò di applicare il sistema parlamentare inglese, scegliendo ministri che avessero la fiducia delle Camere).

Carlo X cercò di fermare la deriva del sistema francese verso il parlamentarismo; la scelta del primo ministro Polignac (personaggio ostile ai liberali) non rappresentava una violazione formale del testo della Carta del 1814, tuttavia indicava in modo chiaro un orientamento diverso da quello inaugurato da Luigi XVIII.

Il 16 marzo 1830, in occasione dell’apertura della sessione parlamentare, la maggioranza liberale della Camera dei Deputati, espresse la sfiducia al ministero guidato dal Principe di Polignac attraverso il noto “appello dei 221”. Carlo X il giorno dopo emanò un’ordinanza con cui aggiornava la sessione dei lavori parlamentari al 1 settembre 1830, mentre il 16 maggio 1830 sciolse la Camera dei Deputati nella speranza di ricostruire una maggioranza a lui favorevole. Alle elezioni del 23 giugno e del 19 luglio 1830 i liberali ottennero 274 seggi (53 seggi in più rispetto alle precedenti elezioni). Alla fine Carlo X e il primo ministro Polignac con le ordinanze del 25 luglio 1830 scatenarono la rabbia delle classi popolari. Si trattò di una vera e propria forzatura del contenuto dell’art. 14 della Carta più che una interpretazione estensiva. L’ultimo passaggio dell’art. 14,2 introducendo una riserva molto estesa, cioè senza il successivo e ordinario passaggio parlamentare, limitava il ricorso alle ordinanze soltanto ai casi in cui fosse in discussione la sicurezza dello Stato. Nel processo ai ministri di Carlo X alla frase in questione fu attribuita il significato “quando lo Stato sia in pericolo” e non quello “nell’interesse dello Stato”.

Le tre giornate insurrezionali di Parigi (costrinsero il re alla fuga) videro le classi popolari in prima linea sulle barricate che sorsero lungo le vie della città, tuttavia la direzione del movimento rimase controllato dai liberali, diffidenti tanto dei repubblicani che di Carlo X. La borghesia liberale fece leva sulla paura suscitata dalla rivolta popolare per ridimensionare le rivendicazioni dei repubblicani e proporre sul trono il cugino del re, Luigi Filippo d’Orléans, il quale si impegnò a rispettare la Costituzione e riprendere la tradizione parlamentare iniziata dal cugino Luigi XVIII.3

Il popolo francese con la rivoluzione di luglio tentò di x abbattere la monarchia, invece si ritrovò con un nuovo re (cugino di Carlo X) e con una nuova Carta costituzionale (9 agosto 1830) quasi identica alla Carta del 4 giugno 1814. Si ritorna alla dottrina della “sovranità nazionale”, la Costituzione è votata dal parlamento (quindi non octroyée) ed accettata dal Re che assume il titolo di “Re dei francesi” come Luigi XVI con la Costituzione del 1791. L’art. 14 della Carta del 1814, che consentiva al re di emettere ordinanze per supplire alle leggi e che aveva provocato la rivoluzione, fu sostituito dall’art. 13 il cui primo comma recitava: “Il Re è il capo supremo dello Stato, comanda le forze di terra e di mare, dichiara la guerra, fa i trattati di pace, d’alleanza e di commercio, provvede alle nomine per tutti gli impieghi dell’amministrazione pubblica e fa i regolamenti e le ordinanze necessarie per l’esecuzione delle leggi senza poter mai né sospendere le leggi stesse, né dispensare dalla loro esecuzione”.

Il re divide con il parlamento il potere legislativo (art. 15: “La proposta delle leggi appartiene al re, alla Camera dei pari e alla Camera dei deputati. Però ogni Legge sull’imposta deve essere anzitutto votata dalla Camera dei deputati”). Con la legge del 21 marzo 1831 furono disciplinati i consigli municipali, con la legge del 19 aprile 1831 fu esteso il diritto di voto: per gli elettori il censo fu abbassato da 300 a 200 franchi e da 1000 a 500 per gli eleggibili. Nonostante questa riforma elettorale potevano votare circa l’1% della popolazione. L’età per l’esercizio del diritto di voto fu portata da 30 a 25 anni. Con la riforma del 1831 la Camera dei Pari divenne espressione dell’alta borghesia nobilitata dalla monarchia. La nomina dei membri spettò sempre al Re, ma venivano indicate le categorie nell’ambito delle quali essi dovevano essere scelti. La Parìa non fu più ereditaria. Nel 1832, con la legge del 22 marzo, fu invece istituita la Guardia Nazionale, alla quale appartenevano tutti i cittadini che pagavano le tasse.

Ciò che conta veramente non è la Carta in sé, ma la prassi costituzionale che in base ad essa segnò l’avvio del cosiddetto “parlamentarismo orleanista”. Durante la Restaurazione Luigi XVIII aveva inaugurato un percorso parlamentare (anche Luigi XVI mise in pratica il parlamentarismo quando, per esempio, destituì i ministri girondini dopo il voto ostile dell’Assemblea). Tuttavia, durante la Restaurazione, alla pratica parlamentare, mancarono alcuni elementi caratterizzanti il regime parlamentare ortodosso: le Camere non disponevano dello strumento dell’interpellanza che consentiva di esercitare il controllo dell’attività politico-amministrativa del governo; i partiti politici, in quanto strumenti per assicurare un collegamento reale con la società, non erano ancora costituiti; i ministri non formavano ancora il “gabinetto” sotto l’autorità di un primo ministro o di un presidente del consiglio dei ministri; la responsabilità politica dei ministri di fronte alle Camere non è ancora considerata una procedura parlamentare definitiva; il capo dello Stato esercita il suo peso istituzionale per controbilanciare quello del parlamento.

Dopo la rivoluzione di luglio si affermeranno molti aspetti del parlamentarismo classico: si svilupperanno l’istituto dell’interpellanza, inizierà ad affermarsi e funzionare l’istituto della responsabilità politica dei ministri, si affermeranno l’autorità del primo ministro e i partiti inizieranno ad organizzarsi. Ciò nonostante, la monarchia orleanista non si può considerare come regime parlamentare classico.

Agli inizi Luigi Filippo d’Orléans regnò secondo le regole del parlamentarismo, ma una volta consolidato il regime, governò personalmente. La monarchia di luglio è inquadrabile in una fase intermedia tra il regime parlamentare, dove il capo dello Stato svolge un ruolo simbolico, in quanto il potere esecutivo spetta al governo e al primo ministro, e la monarchia limitata nella quale il re esercita il potere esecutivo e il parlamento vota le leggi ed approva il bilancio. Nel parlamentarismo orleanista l’intervento del capo dello Stato attenua il carattere parlamentare (Nogueira Alcalá, 1993, p. 244).

Per concludere, si può parlare di un rapporto della doppia fiducia che lega i ministri al parlamento e al capo dello Stato. Si afferma l’idea di un governo doppiamente dipendente dal Re e dalla Camera dei Deputati (Esmein, 1896, p. 247).4 La rivoluzione di Luglio rappresenta il risultato di una nuova alleanza tra la borghesia finanziaria parigina ed aristocratici e borghesi possessori di grandi proprietà fondiarie. In definitiva, i rappresentanti dell’alta borghesia finanziaria riuscirono ad imporre il proprio disegno politico legittimando il nuovo regime attraverso la soluzione monarchico-costituzionale. La modesta revisione costituzionale, servì a rimediare agli eccessi assolutistici di Carlo X, garantire la Restaurazione e portare a compimento la prassi parlamentare.

4. Costituzione belga del 1831

La rivoluzione belga (scoppiata dopo la rivoluzione di luglio 1830 in Francia) fu il conflitto che portò alla secessione delle province del sud del Regno Unito dei Paesi Bassi e alla nascita del Belgio in quanto Stato indipendente (proclama del 4 ottobre 1830 con un decreto del governo provvisorio). Il 3 novembre 1830 si tennero le elezioni per il Congresso Nazionale che si riunì il 10 novembre. Il 18 novembre il Congresso confermò (votata all’unanimità) la dichiarazione d’indipendenza. Il 22 novembre 1830 il Congresso Nazionale optò per la monarchia costituzionale parlamentare ereditaria. Il 6 ottobre era stata istituita una Commissione incaricata di redigere la Costituzione; il testo del progetto costituzionale fu trasmesso al Governo provvisorio il 28 ottobre. Le sedute del Congresso iniziarono il 13 dicembre 1830 ad esaminare e modificare il progetto di Costituzione. Il 7 febbraio 1831 fu chiusa la discussione e il Congresso approvò la Costituzione belga.

La Costituzione belga, qua e là richiamata da non poche Costituzioni italiane, riprendeva molti principi ed istituti presenti nelle Costituzioni francesi del 3 settembre 1791, nella Carta del 4 giugno 1814 e nella Carta francese del 14 agosto 1830. Dicey non esitò a sostenere che il parlamento belga (si riferiva alle regole di funzionamento del sistema politico-costituzionale belga) aveva molti punti in comune con il sistema costituzionale inglese (Dicey, 1889, p. 87). La Costituzione si può considerare un buon compromesso tra il modello costituzionale inglese ed il modello francese (De’ Cocci, 1946).

Il testo formale belga del 1831, secondo Gilissen, è costituito per il 35% delle sue norme dalla Carta francese del 1830 e da quella del 1815, circa il 10% dalla Costituzione francese del 3 settembre 1791 e per il 40% circa dalla Costituzione olandese del 1815 (Gilissen, 1967, pp. 38-69). Dunque, anche la Costituzione belga del 1831 (da molti studiosi considerata come modello di riferimento - insieme alle carte francesi – di alcune costituzioni italiane, in particolare per lo Statuto Albertino) non era un testo originale, con proprie specificità istituzionali, ma aveva mutuato molte norme da altre esperienze costituzionali precedenti.

Il potere legislativo era esercitato collettivamente dal Re, dalla Camera dei rappresentanti e dal Senato (art. 26), il Re aveva la funzione di ratifica e di promulgazione (art. 69: “Il Re sanziona e promulga le leggi”). Il corpo elettorale era su base censitaria; infatti coloro che avevano il diritto di voto per eleggere i deputati e i senatori erano solo i cittadini con mezzi economici sufficienti per pagare il “cens électoral”. Il parlamento belga era considerato espressione della volontà nazionale (art. 32), pur risultando eletto solo da una parte della popolazione. In realtà i membri delle due Camere erano i rappresentanti della minoranza che li aveva votati. Erano sostanzialmente espressione della borghesia, quindi rappresentavano soltanto quella minoranza che poteva per censo esprimere il diritto di voto. Il potere esecutivo era affidato al re e al Governo, ma è quest'ultimo tuttavia ad essere responsabile per la politica governativa. La Costituzione prevedeva che gli atti del Re sono efficaci solo se controfirmati da un ministro (art. 63: “La persona del re è inviolabile; i suoi ministri sono responsabili”, mentre l’art. 64 aggiungeva: “Nessun atto del re può avere effetto se non è controfirmato da un ministro che con ciò se ne rende responsabile”). Il controllo del potere esecutivo da parte del potere legislativo passava soprattutto dall'approvazione annuale del bilancio pubblico e delle imposte “a profitto dello Stato” (art. 111: “Le imposte a profitto dello Stato sono votate annualmente. Le leggi che le stabiliscono non hanno forza che per un anno, se esse non sono rinnovate”; l’ultimo periodo dell’art. 116 riguardava il bilancio dello Stato: “La contabilità generale dello Stato è sottoposta alle Camere con le osservazioni della Corte dei conti. L’ordinamento di questa Corte è stabilito da una legge”).

La forma di governo parlamentare non era prevista nel dettato costituzionale, si è instaurata nella prassi istituzionale con l’assunto che ogni atto del re avrebbe avuto la controfirma di un ministro (art. 64), sul quale si sarebbe trasferita la responsabilità dell'atto. Il Governo era, comunque, politicamente responsabile di fronte al Parlamento (come diceva Dicey la Costituzione belga è "molto prossima alla riproduzione scritta della Costituzione inglese”).5

5. La Costituzione del Regno delle Due Sicilie del 10 febbraio 1848

A Palermo il 23 gennaio 1848 i quattro comitati deliberarono di costituire un Comitato Generale. Fu istituita la figura di un presidente e di un segretario generale, come presidente fu eletto Ruggero Settimo (28 voti contro 3), come segretario generale Mariano Stabile (all’unanimità).6

Nel frattempo Ferdinando II, il 29 gennaio, pubblicava le basi della futura Costituzione poi promulgata il 10 febbraio 1848. Il testo costituzionale si basava sulla carta costituzionale francese del 14 agosto 1830. Essa è costituita in tutto da 89 articoli, di cui 31 sono dedicati alle disposizioni generali.

L’articolo 1 definisce la forma di governo del Regno delle Due Sicilie “temperata monarchia ereditaria costituzionale sotto forme rappresentative”. Questa definizione la troviamo nell’articolo 2 della Constituzione di Baiona (Estatuto de Bayona), nell’articolo 14 della Costituzione di Cadice del 18127 (El Gobierno de la Nación española es una Monarquía moderada ereditaria), negli articoli 1 e 2 della Costituzione murattiana del 18 maggio 1815 e nell’articolo 14 del Regno delle Due Sicilie del 1820 (articolo identico a quello della Costituzione di Cadice del 1812). L’articolo 4 attribuisce il potere legislativo al re e al parlamento (composto dalla camera dei pari e da quella dei deputati), stesso contenuto nell’articolo 14 della Carta costituzionale francese del 1830 e nell’articolo 26 della Costituzione belga del 1831 (l’avverbio “collettivamente” utilizzato dal legislatore costituzionale francese e da quello belga è stato sostituito nella Costituzione ferdinandea dal sinonimo “complessivamente”). L’articolo 5 sul potere esecutivo è la traduzione dell’ultima parte dell’articolo 12 della Costituzione francese del 1830, mentre l’articolo 6 “L’iniziativa per la proposizione delle leggi appartiene indistintamente al re ed a ciascuna delle due Camere legislative” corrisponde alla prima parte dell’articolo 15 della Costituzione francese del 1830 ed alla prima parte dell’articolo 27 della Costituzione belga del 1831. Per ciò che riguarda l’interpretazione delle leggi la Costituzione napoletana, sia per contenuto che per collocazione dell’articolo, seguì l’art. 28 della Costituzione belga del 1831: l’interpretazione delle leggi in generale appartiene al potere legislativo.8

Con l’art. 87 (Talune parti di questa costituzione potranno essere modificate pe’ nostri dominii di là del Faro, secondo i bisogni e le condizioni particolari di quelle popolazioni) il legislatore costituzionale napoletano escluse per la parte continentale del Regno, la possibilità di una revisione della Costituzione, mentre l’ammise soltanto nei confronti della Sicilia, ancora una volta teatro di un’insurrezione. Questo articolo fu integrato dall’art. 32 della legge elettorale provvisoria per la prima convocazione della Camera dei deputati: “Ci riserbiamo di apportar delle modificazioni a questa nostra legge provvisoria elettorale per applicarla convenientemente a’ bisogni ed alle speciali condizioni de’ nostri reali dominii di là del Faro, tosto che avremo dato effetto a quanto trovasi disposto nell’articolo 87 della Costituzione”.9

La Costituzione napoletana si adeguò all’esempio della Costituzione francese del 1830, mentre l’art. 131 della Costituzione belga conteneva norme di revisione della Carta. E’ una Costituzione flessibile e, come molte altre Costituzioni dell’800, non prevedeva un particolare procedimento di revisione, consentendo che ciò potesse avvenire attraverso l’ordinaria attività legislativa.

La camera dei deputati era composta da membri eletti in ragione di uno ogni 40 mila anime (art. 54), mentre l’art. 50 stabilendo che “i deputati rappresentano la nazione in complesso e non le province ove furono eletti” introduceva nell’ordinamento napoletano il principio del “divieto di mandato imperativo” che si ricollega immediatamente con quello della “sovranità nazionale”. Il costituente francese nella Costituzione del 3 settembre 1791 ha inserito l’art. 7 (Titolo III, Capitolo I, Sezione Terza) che stabiliva: “I rappresentanti nominati nei dipartimenti non saranno rappresentanti di un dipartimento particolare, ma dell’intera Nazione, e non potrà essere dato loro alcun mandato” (Grimaldi, 2017, pp. 220-222).10 La stessa disposizione la troviamo nell’art. 32 della Costituzione belga (I membri delle due Camere rappresentano la Nazione, e non soltanto la Provincia o la parte di Provincia che li ha eletti).

La Camera dei pari era composta da un numero illimitato di membri vitalizi nominati dal re tra i cittadini che avessero compiuto i trenta anni (artt. 43-45). Ai sensi dell’art. 48 la Camera dei pari, costituita in Alta Corte di giustizia, giudicava dei reati di altro tradimento e di attentato alla sicurezza dello Stato di cui fossero imputati i membri del Parlamento. Con l’art. 74, invece, si attribuisce alla Camera dei deputati il diritto di mettere in stato d’accusa i ministri, ma attribuisce la giurisdizione esclusivamente alla Camera dei pari.11

Elettori ed eleggibili della Camera dei deputati, erano i cittadini di 25 anni che non dovevano trovarsi in stato di fallimento o sottoposti a giudizio criminale (art. 55). L’art. 56 indicava i requisiti e le categorie sociali che avrebbero potuto esercitare il diritto di voto (cattedratici, industriali, professionisti, commercianti, ecc.). Al punto 1) è indicato il requisito censitario “tutti coloro i quali posseggono una rendita imponibile, di cui sarà determinata la quantità dalla legge elettorale”.

La persona del re, secondo l’art. 63 della Costituzione ferdinandea, era sacra ed inviolabile e non era soggetta ad alcuna specie di responsabilità. Il re convocava le sessioni annuali delle Camere, le prorogava, le chiudeva e poteva sciogliere la Camera dei deputati, convocandone un’altra per nuove elezioni, entro un lasso di tempo improrogabile di tre mesi (art. 64). Ai sensi dell’art. 65 il re sanzionava le leggi votate dal parlamento, e se una legge a cui la sanzione reale veniva negata, non la si poteva richiamare in esame nella sessione dell’anno.12

I ministri erano responsabili (art. 71), potevano essere messi sotto accusa dalla Camera dei Deputati e giudicati dalla Camera dei Pari (art. 74). Quest’ultima disposizione rappresenta la traduzione dell’art. 47 della Costituzione francese del 1830 e della prima parte dell’art. 90 della Costituzione belga del 1831 (la Camera dei rappresentanti ha diritto di accusare avanti alla Corte di Cassazione, che sola può giudicarli). Tutti gli atti di governo sottoscritti dal re non potevano avere effetto se non fosse stato controfirmato da un ministro segretario di Stato, “il quale perciò solo se ne rende responsabile” (art. 72).13

III. LO STATUTO ALBERTINO

1. Il Re incarna la Nazione

Il modello al quale si ispirò il Consiglio di Conferenza fu quello della Carta Costituzionale del 14 giugno 1814, della Costituzione olandese del 1815, della Carta Costituzionale del 1830 e della Costituzione belga del 1831 (alcuni articoli di queste Costituzioni sono identici a quelli adottati dalla Costituzione Albertina). Lo Statuto albertino si ispirò in modo particolare alle vicende costituzionali e ai lavori della Commissione nominata da Luigi XVIII al suo ritorno a Parigi. La Carta del 14 giugno 1814 era stata preceduta da una Costituzione votata dal Senato imperiale e mai applicata, provvisoriamente sostituita, dopo il ritorno di Napoleone Bonaparte, dall’Atto addizionale alle Costituzioni dell’Impero (la Costituzione senatoria prevedeva: il re, chiamato al trono dalla nazione, detiene il potere esecutivo, il diritto di iniziativa e di sanzionare le leggi. Può individuare e scegliere i suoi ministri dalle assemblee e tutti gli atti del re sono sottoposti alla firma ministeriale. Il potere legislativo è composto dal Senato, i cui membri sono nominati dal re e sono ereditari e inamovibili, e il Corpo legislativo, eletto dalla nazione. Tra il re, capo dell’esecutivo, e il corpo legislativo si intravede una collaborazione istituzionale: nella redazione delle leggi, nella scelta dei ministri in seno alle assemblee e nel potere del re di scioglimento del Corpo legislativo. Non si può parlare ancora di sistema parlamentare, manca la responsabilità politica dei ministri davanti al parlamento e l’obbligo di dimissioni in caso di voto di sfiducia. Questa Costituzione non fu adottata da Luigi XVIII ma i suoi principi sull’organizzazione dei pubblici poteri furono posti a fondamento della Carta del 4 giugno 1814. Gli organi costituzionali non differiscono da quelli previsti dalla Costituzione votata dal Senato imperiale).

La commissione nominata da Luigi XVIII ribalta la concezione della monarchia e della costituzione e si sbarazza facilmente dei principi costituzionali rivoluzionari. Per il Senato imperiale era la nazione a conferire alla monarchia l’esercizio del potere sovrano e la costituzione era concepita come un insieme di regole giuridiche imposte al re dai rappresentanti della nazione. La Carta del 1814, invece, afferma che la monarchia esiste indipendentemente dalla Nazione e la Costituzione è soltanto una concessione graziosa del re che accorda alla nazione determinate libertà e garanzie: uguaglianza davanti alla legge, libertà individuale, libertà di stampa e rispetto della proprietà (Duverger, 1955, p. 400; Lemarie, 1907).

Luigi XVIII ribalta i principi fissati nella costituzione senatoria. Prima della rivoluzione si parlava già della “nazione” come corpo immaginario e separato dal monarca; le “Maximes du droit public français” del 1771, per esempio, distinguevano lo Stato dalla persona del re, il quale aveva solo l’amministrazione del potere supremo, mentre il corpo della nazione ne aveva la proprietà. Quindi, se il corpo della nazione è proprietario del potere sovrano e il re esercita questo potere, si possono individuare due centri di potere: uno esercitato dal re nei confronti dei singoli individui, l’altro individuato nella Nazione considerata come corpo.

L’impianto costituzionale di queste Costituzioni, compreso lo Statuto albertino, era teso a costruire un sistema di governo all’interno del quale il principio monarchico poteva convivere con il principio del governo rappresentativo e per questa via evitare le conseguenze di un’eventuale piena affermazione del principio della sovranità nazionale, (così come si era affermato durante la rivoluzione francese secondo la teoria dell’abate Sieyès) ed ogni formula che in qualche modo potesse ricondurre alla sovranità popolare, all’unico scopo di garantire la posizione di preminenza al Governo (Mortati, 1961, p. 80). Sieyès propose un concetto di nazione considerato sotto un duplice aspetto: come corpo sociale e come soggetto giuridico. Alla base del potere, quindi, non la somma delle volontà individuali, ma una volontà trasferita (dal re alla nazione) ad una nuova identità collettiva, ad un nuovo soggetto politico: la nazione. L’esercizio della sovranità poteva essere espressa esclusivamente dai rappresentanti della nazione, cioè da coloro che erano stati eletti dai cittadini a ricoprire le più alte cariche dello Stato, quindi la Legge era intesa come volontà della nazione espressa dai suoi rappresentanti. Si tratta di una impostazione giuridica che garantiva alla borghesia, protagonista della rivoluzione, da un lato che non si introducessero nel sistema costituzionale istituti giuridici espressione della sovranità popolare, che avrebbero riposto nel popolo la fonte del potere e dall’altro che si difendesse la proprietà da eventuali attacchi assolutistici.

La Carta del 4 giugno 1814 e la Carta Costituzionale del 1830 non definiscono le Camere come “rappresentanti della Nazione”, in esse non c’è nessun riferimento al concetto di “Nazione”, mentre troviamo tale affermazione in modo puntuale nelle Costituzioni del Belgio (art. 32) e nell’art. 50 del Regno delle Due Sicilie (la Costituzione olandese, all’art. 81, definisce gli Stati Generali come rappresentanti del popolo olandese).

Il Re Carlo Alberto non accettò il principio, così come prima di lui il Re Luigi XVIII, che la “Legge” fosse espressione della “volontà della Nazione”, manifestata attraverso i suoi rappresentanti, ma volle condividere con il Parlamento il potere legislativo, conservando tuttavia numerosi altri poteri, tra cui il potere esecutivo. In questo senso, la Costituzione albertina era espressione di un potere sovrano del Re condiviso con i rappresentanti della Camera elettiva (come la Carta concessa da Luigi XVIII). Inserendo nello Statuto l’art. 41 (“i Deputati rappresentano la Nazione in generale, e non le sole provincie in cui furono eletti. Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli Elettori”) non ci fu un trasferimento della sovranità, non si affacciò sulla scena politica un nuovo sovrano, un nuovo soggetto politico-giuridico, rinvenibile nelle Camere in quanto espressione della “Nazione”. Si volle in realtà legittimare il predominio della borghesia e legalizzare la struttura aristocratica dello Stato. Non il popolo in generale, ma solo una parte molto ristretta di esso, composta prevalentemente dai “cittadini attivi”, avrebbe partecipato alle elezioni dei cittadini da inviare alla Camera, tutti gli altri erano esclusi. Era quindi necessario restringere l’elettorato attivo attraverso il censo e la “capacità”. Si attribuiva fondamento costituzionale al suffragio ristretto caratterizzando lo Stato come Stato monoclasse. Gli elettori e i candidati alla Camera erano essenzialmente espressione della stessa classe sociale. I deputati erano considerati i cittadini più “capaci” e più “meritevoli”, ad essi spettava dunque interpretare liberamente, sulla base di un mandato fiduciario e non vincolato (divieto di mandato imperativo), la volontà della “Nazione” intesa come volontà politica generale (principio che si era affermato nella Costituzione del 1791). L’obiettivo era duplice: da un lato serviva ad arginare eventuali rigurgiti assolutistici, dall’altro poteva costituire un freno alle aspirazioni democratiche.

Seguendo questa impostazione, l’unità della nazione è raggiunta e si manifesta attraverso i rappresentanti elettivi (della media ed alta borghesia) e dal Re, considerato anch’egli generalmente rappresentante della Nazione, nel senso che il re incarna (insieme ai rappresentanti della borghesia) una delle manifestazioni in cui può esprimersi la volontà della “Nazione” (formalmente lo Statuto non indica il Re come rappresentante della nazione). Questa struttura implicitamente fa assumere alla “responsabilità politica” un ruolo centrale e nello stesso tempo la circoscrive nell’ambito del circuito politico-costituzionale come responsabilità del Governo nei confronti delle Camere. La tecnica della separazione richiama sempre (accanto all’indipendenza del potere esecutivo) la responsabilità politica dinanzi al Parlamento. Secondo Martin e Cabanis, il principio della separazione dei poteri organizza una ripartizione dei poteri costituzionali tra i diversi organi di governo con una precisa finalità politica: indebolire il Re (Martin, Cabanis, 2000, p. 13). Quindi, responsabilità politica, governo monarchico e rappresentativo, irresponsabilità regia e responsabilità dei ministri costituiscono i principi statutari che attribuirono formalmente alla Carta Albertina il carattere costituzionale-parlamentare.

Per concludere, Luigi XVIII e successivamente Carlo Alberto non accettarono i principi contenuti negli articoli 1 e 2 del Titolo III della Costituzione del 3 settembre 1791, laddove all’art. 1 si stabilisce che “la sovranità è una, indivisibile, inalienabile e imprescrittibile. Essa appartiene alla Nazione; nessuna sezione del popolo, né alcun individuo può attribuirsene l’esercizio” mentre all’articolo 2 indica “La Nazione, dalla quale provengono unicamente tutti i poteri, non può esercitarli se non per delega. La Costituzione francese è rappresentativa: i rappresentanti sono il Corpo legislativo e il Re”. Anche la Carta Costituzionale del 1830, fotocopia (nonostante i rivolgimenti sociali) della Carta Costituzionale del 1814, non contiene norme che affermano che la sovranità appartiene alla Nazione e dalla quale provengono tutti i poteri. Su questo solco possiamo inserire anche la Costituzione olandese del 1815, nonostante un isolato e generico riferimento agli Stati Generali quali rappresentanti del popolo olandese, ma non la Costituzione belga del 1831 nel cui articolo 25 stabilisce: “Tutti i poteri emanano dalla Nazione. Essi sono esercitati nella maniera stabilita dalla Costituzione.

Si comprende come il fondamento legittimista del potere del Re (legittimazione trascendente) abbia resistito all’affermazione del principio della sovranità nazionale (la sovranità trasferita alla “Nazione”, questa considerata come persona giuridica distinta dai singoli individui che ne fanno parte). Pur non potendo parlare pienamente di Plenitudo Potestatis non fu eliminata la posizione di legittimazione trascendente posta a fondamento della monarchia (nel preambolo dello Statuto si ribadiva: Carlo Alberto “per la grazia di Dio Re di Sardegna”, “prendendo unicamente consiglio dagli impulsi del Nostro cuore fosse Nostra intenzione di conformare le loro sorti alla ragione dei tempi, agli interessi ed alla dignità della Nazione”, “abbiamo determinato di sancirlo e promulgarlo, nella fiducia che Iddio benedirà le pure Nostre intenzioni”…“di Nostra certa scienza, Regia autorità … abbiamo ordinato ed ordiniamo in forza di Statuto e Legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia”). Questo tratto caratteristico dello Statuto si presta però ad un’ambiguità di fondo circa l’attribuzione della sovranità. A dare una sistemazione giuridico-costituzionale sono quattro principi statutari (responsabilità politica, governo monarchico e rappresentativo, irresponsabilità regia e responsabilità dei ministri) che attribuiscono alla Carta Albertina natura contrattuale, di patto tra il Re, borghesia e nobiltà liberale i cui interessi erano rappresentati nella Camera dei Deputati. Il Re formalmente autolimita il proprio potere concedendo la Carta, ma sostanzialmente stringe un patto con la borghesia liberale moderata per contrastare le rivendicazioni rivoluzionarie che avrebbero potuto mettere a repentaglio i privilegi della monarchia, degli aristocratici e dell’alto clero (Duverger, 1973, pp. 22-42). La Carta Albertina rappresenta il superamento della monarchia assoluta, con essa si instaura una monarchia basata su una Costituzione, si isolano quelle forze reazionarie nostalgiche dell’Antico regime (escludendo la revoca unilaterale dello Statuto) e si neutralizzano le istanze rivoluzionarie (Lavagna, 1973, p. 116). Come ogni contratto o patto, anche lo Statuto poteva costituire oggetto di modifiche con il consenso dei due corpi costituzionali (Re e Parlamento, in particolare la Camera dei Deputati). Per Ferrari Zumbini la “duttilità” indica l’attitudine della Carta “a recepire mutamenti culturali, a favorire un modello generativo di processi modificativi delle norme e innescando costantemente fenomeni di mutazione del tessuto costituzionale”. La “duttilità”, quindi, è da considerare come elemento della centralità non dello Statuto, ma del “patto che con il passare degli anni avrebbe permesso l’osmosi nello Stato di soggetti nuovi” (Ferrari Zumbini, 2011, p. 15).

2. Carattere oligarchico del sistema costituzionale

Il potere legislativo fu attribuito congiuntamente al Re, al Senato e alla Camera dei deputati: “Il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal Re e da due Camere: il Senato, e quella dei Deputati”. Il contenuto dell’art. 3 dello Statuto è identico all’art. 14 della Carta Costituzionale del 14 agosto 1830 (“Il potere legislativo viene esercitato collettivamente dal Re, dalla Camera dei pari e dalla Camera dei deputati”), all’art. 15 della Carta del 4 giugno 1814 (“Il Potere legislativo viene esercitato collettivamente dal Re, dalla Camera dei pari e dalla Camera dei deputati dei dipartimenti”), all’art. 25 della Costituzione belga del 1831 (“Il potere legislativo è esercitato collettivamente dal Re, dalla Camera dei rappresentanti e dal Senato”), all’art. 112 della Costituzione olandese del 1815 (Il potere legislativo è esercitato in comune dal re e dagli Stati Generali”), all’art. 4 della Costituzione del Regno delle Due Sicilie del 10 febbraio 1848 (Il potere legislativo risiede complessivamente nel re, ed in un parlamento nazionale, composto da due camere, l’una di pari, l’altra di deputati).

L’articolo 9 riprende il contenuto dell’articolo 50 della Carta francese del 4 giugno 1814, ma anche dell’art. 71 della Costituzione belga, dell’art. 75 della Costituzione olandese, dell’art. 64 della Costituzione del Regno delle Due Sicilie e stabilisce: “Il Re convoca in ogni anno le due Camere: può prorogarne le sessioni, e disciogliere quella dei Deputati; ma in quest’ultimo caso ne convoca un’altra nel termine di quattro mesi”. Il Re solo sanziona le leggi e le promulga. L’articolo 9 riprende il contenuto dell’articolo 50 della Carta francese del 4 giugno 1814 (ma anche dell’art. 71 della Costituzione belga, dell’art. 75 della Costituzione olandese, dell’art. 64 della Costituzione del Regno delle Due Sicilie) e stabilisce: “Il Re convoca in ogni anno le due Camere: può prorogarne le sessioni, e disciogliere quella dei Deputati; ma in quest’ultimo caso ne convoca un’altra nel termine di quattro mesi”. Con l’art. 10 si stabilisce che “la proposizione delle leggi apparterrà al re ed a ciascuna delle due Camere. Però ogni legge d’imposizione di tributi, o di approvazione dei bilanci e dei conti dello Stato, sarà presentata prima alla Camera dei Deputati”.

Con la Camera dei Deputati si realizzava il principio democratico, il voto però non era esteso a tutti. La legge elettorale emanata con regio editto del 17 marzo 1848, n. 680, era stata elaborata anteriormente all'apertura del Parlamento subalpino da una commissione presieduta da Cesare Balbo. L'elettorato poteva essere esercitato solamente dai maschi in possesso di una serie di requisiti: età non inferiore ai 25 anni, saper leggere e scrivere, pagamento di un censo di 40 lire. Al voto erano ammessi, anche non pagando l'imposta stabilita, i cittadini che rientravano in determinate categorie: magistrati, professori, ufficiali. I deputati, in numero di 204, erano eletti in altrettanti collegi uninominali. Questa normativa elettorale, parzialmente modificata dalla legge del 20 novembre 1859, n. 3778, emanata durante la seconda guerra di indipendenza dal governo Rattazzi in virtù dei pieni poteri, rimase sostanzialmente inalterata dal 1848 al 1882. La legge del 22 gennaio 1882, n. 999, ammise all'elettorato tutti i cittadini maggiorenni che avessero superato l'esame del corso elementare obbligatorio oppure pagassero un contributo annuo di lire 19,80. In questo modo si realizzò un cospicuo allargamento del corpo elettorale che passò da circa 628.000 ad oltre 2.000.000 di elettori, cioè dal 2% al 7% della popolazione totale che contava 28.452.000 abitanti. Furono anche modificate le circoscrizioni con riferimento alle province e si costituirono collegi con due e fino a cinque rappresentanti, adottando lo scrutinio di lista (fu abolito lo scrutinio uninominale, ma con la legge 5 maggio 1891, n. 210, si tornò al sistema precedente).

Si comprende il carattere spiccatamente oligarchico del sistema, dal quale gran parte del popolo era esclusa. La ristretta base sociale consentì un contatto diretto ed una frequentazione tra deputati ed elettori. Solo nei primi del Novecento furono attuate diverse riforme elettorali con l’intento di allargare il suffragio e, di conseguenza, coinvolgere nello Stato ceti sociali che erano stati esclusi dalla partecipazione alla vita dello Stato. Questo lento processo consentì la trasformazione dello “Stato monoclasse” in “Stato pluriclasse” e l’ingresso sulla scena politica dei partiti di massa.

Il suffragio universale maschile fu introdotto con la legge del 30 giugno 1912, n. 666. L'elettorato attivo fu esteso a tutti i cittadini maschi di età superiore ai 30 anni senza alcun requisito di censo né di istruzione, restando ferme per i maggiorenni di età inferiore ai 30 anni le condizioni di censo o di prestazione del servizio militare o il possesso di titoli di studio già richiesti in precedenza. Il corpo elettorale passò da 3.300.000 a 8.443.205, di cui 2.500.000 analfabeti, pari al 23,2% della popolazione. Non si attuò invece la revisione dei collegi elettorali in base ai censimenti (la Camera respinse con votazione per appello nominale la concessione del voto alle donne). Al termine del primo conflitto mondiale la legge 16 dicembre 1918, n. 1985, ampliò il suffragio estendendolo a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 21 anni e, prescindendo dai limiti di età, a tutti coloro che avessero prestato servizio nell'esercito mobilitato. L'idea di una riforma del sistema elettorale in senso proporzionale acquistò sempre maggiori consensi nel paese nel dopoguerra. Protagoniste di questa tendenza furono le forze politiche d'ispirazione socialista e cattolica, organizzate in partiti di massa, le quali aspiravano ad offrire una più estesa rappresentanza a quelle classi sociali che maggiormente avevano sopportato il peso della guerra. Il 9 agosto 1918 la Camera votò a scrutinio segreto la nuova legge elettorale con 224 voti a favore e 63 contrari. Alla votazione finale non presero parte gli ex Presidenti del Consiglio Giovanni Giolitti ed Antonio Salandra. Con la legge 15 agosto 1919, n. 1401, fu introdotto il sistema proporzionale. Base dei collegi divennero le province, ma con riguardo anche alla popolazione in modo tale che ad ogni collegio corrispondessero almeno 10 eletti.

Nel periodo liberale la Camera dei Deputati era composta da singoli deputati, privi di un apparato organizzato ed in quanto tali non erano espressione di partiti o movimenti politici. L’omogeneità socio-economica (la Camera era prevalentemente costituita da borghesi, grandi proprietari terrieri e professionisti) e l’assenza di vincoli di appartenenza partitica consentirono la formazione di pratiche trasformistiche e clientelari.

3. Responsabilità politica, irresponsabilità regia e regime parlamentare. Le Convenzioni costituzionali

Il Re era a capo del potere esecutivo (art. 5: “Al Re solo appartiene il potere esecutivo…”), solo il re sanziona e promulga le leggi (art. 7), il Re nomina e revoca i suoi Ministri (art. 65), l’art. 67 aggiunge: “i Ministri sono responsabili. Le leggi e gli atti del Governo non hanno vigore, se non sono muniti della firma di un Ministro”.

L’art. 67 non specifica verso chi fossero responsabili i ministri (tutti gli articoli prima elencati erano inseriti nelle Costituzioni francesi del 1814 e 1830, nella Costituzione olandese del 1815, nella Costituzione belga del 1831 e nella Costituzione del Regno delle due Sicilie del 1848), nei confronti del Re, delle Camere, oppure di entrambi. Dalla lettura isolata dell’art. 65 emergerebbe una responsabilità dei ministri solo nei confronti del Re, ma lo Statuto, aggiungendo il secondo comma dell’art. 67 (le leggi e gli atti del Governo non hanno vigore se non sono muniti della firma di un Ministro), separa il Re dall’effettivo esercizio del potere esecutivo in capo al Re, ma non gli toglie la titolarità (Racioppi e Brunelli, 1909, pp. 213-229).

I singoli ministri (non c’è ancora il Consiglio dei Ministri) rispondevano personalmente di fronte al parlamento, ma che tipo di responsabilità introduce lo Statuto, la responsabilità giuridica, la responsabilità politica oppure entrambe?

Lo Statuto attribuisce alla Camera dei Deputati il diritto di accusare i Ministri del Re, e di tradurli dinanzi all’Alta Corte di Giustizia (art. 47), cioè del Senato, che ai sensi dell’art. 36, si costituiva (con decreto del Re) in Alta Corte di Giustizia per giudicare dei crimini di alto tradimento e di attentato alla sicurezza dello Stato e per “giudicare i Ministri accusati dalla Camera dei Deputati. La Carta Albertina, come del resto tutte le precedenti Costituzioni emanate dopo la Restaurazione, non utilizza il termine “responsabilità politica”.

La chiave di volta del sistema parlamentare poggia sul contenuto da attribuire al principio di responsabilità, nel senso che non è solo importante stabilire nei confronti di chi erano responsabili i ministri, ma anche definire il tipo di responsabilità a cui erano assoggettati i ministri.

Nello Statuto troviamo una esplicita disciplina della responsabilità giuridica, la Camera poteva accusare i ministri prevedendo quindi l’esercizio dell’atto di accusa (impeachment) contro i ministri del re, tipico controllo repressivo. I redattori dello Statuto conoscevano molto bene le altre esperienze costituzionali, quelle maturate in Francia e le vicende costituzionali inglesi, dunque non potevano ignorare che la responsabilità penale avrebbe aperto la strada alla responsabilità politica e al regime parlamentare. In Inghilterra, la controfirma ministeriale si era resa necessaria e proveniva essenzialmente dall’affermazione di due principi considerati fondamentali: il primo diceva che “il Re non può sbagliare”, cioè il principio dell’irresponsabilità regia; il secondo affermava che il parlamento non è l’organo sovrano. Dunque, gli atti del re dovevano essere ricondotti alla responsabilità di un altro soggetto. La controfirma da parte del Governo aveva come scopo quello di individuare un soggetto giuridicamente responsabile per gli atti compiuti dal Re, in questo modo si escludeva il Capo dello Stato da qualsiasi forma di responsabilità. Se il parlamento avesse potuto controllare la conformità degli atti del re alle leggi, e per questa via affermare la sua responsabilità, avrebbe assunto una posizione costituzionale superiore a quella del Re stesso e quindi sarebbe diventato il vero sovrano, ma il secondo principio fondamentale escludeva che il parlamento potesse diventare organo sovrano.

Nell’esperienza inglese, l’Act of Settlement del 1701 confermava il potere di “impeachment” e stabiliva che il Re non poteva esentare i ministri dalla loro responsabilità (conteneva anche una disciplina organica con la quale si regolava la successione al trono escludendo da questa ogni papista e fissava anche il principio della stabilità dei giudici). Un altro atto importante è il Septennial Act del 1715 con cui la durata del Parlamento veniva prolungata da tre a sette anni: una durata lunga avrebbe permesso al Parlamento di seguire in modo organico e non episodico lo svolgimento dell’indirizzo politico e di poter influire in modo decisivo. Sono tre gli Atti che in modo particolare hanno affermato il principio della “Supremazia del Parlamento”: il Bill of Rights (1689), l’Act of Settlement (1701) e il Septennial Act (1715). Questo principio costituisce un aspetto caratteristico della forma di governo che si era avviata dopo la seconda rivoluzione, esso indica in senso lato che il Parlamento controlla l’esercizio della funzione di indirizzo politico e che attraverso ripetuti comportamenti politici o “convenzioni costituzionali”, il controllo repressivo (impeachment contro i ministri del Re), tipico controllo esercitabile ex post, si trasforma in un controllo preventivo, espressione della inevitabile necessità di un rapporto di fiducia tra le Camere e il Governo. Ben presto le Camere ottennero il diritto ad essere regolarmente convocate ogni anno in quanto il Re, per mantenere un esercito stabile, aveva bisogno dell’autorizzazione del parlamento alle spese militari: ciò consentì alle Camere di seguire con regolarità lo svolgimento dell’indirizzo politico. L’influenza del parlamento sull’indirizzo politico diventa sempre più penetrante a tal punto che i ministri del re dovevano tendenzialmente riscuotere la fiducia del parlamento e manifestare le tendenze politiche espresse dalle Camere. A quel punto, diventa sostanzialmente difficile l’uso dell’impeachment contro il singolo ministro, tra parlamento e ministri si era consolidato un rapporto di fiducia, l’eventuale sfiducia, al contrario, portava alle dimissioni dei membri del Gabinetto (Mortati, 1965, pp. 103-130). Per concludere, la responsabilità giuridica, in quanto controllo repressivo (accusa e giudizio penale contro il ministro), si trasforma in responsabilità politica che comportava, in quanto controllo preventivo, l’atto di sfiducia contro i membri del Governo (e le loro dimissioni).

Lo Statuto Albertino, dunque, inserendo con il secondo comma dell’art. 67 l’istituto della controfirma, introduce nel sistema costituzionale la “responsabilità politica”, la controfirma ministeriale rappresenta la chiave di volta del sistema parlamentare (Orlando, 1894, pp. 186-208). Gli organi costituzionali concepiti dallo Statuto non furono immaginati come corpi rigidamente separati e quindi un governo separato dalle Camere. Il disegno costituzionale albertino cristallizza formalmente (come, del resto, avevano fatto le altre Carte Costituzionali europee) l’organo “complesso”, costituito dal re e dal parlamento, nel quale l’influenza di un potere sulla funzione dell’altro era esercitabile solo ex post, tuttavia recepiva (oltre ad aver attribuito al Re il potere di sanzionare, promulgare le leggi e sciogliere la Camera dei Deputati con le garanzie previste dall’art. 9) il controllo preventivo delle Camere e il conseguente rapporto di fiducia tra le Camere e il Governo (Marongiu, 2000, p. 452).14 In questo impianto costituzionale il re assume un nuovo ruolo, la controfirma ministeriale vale ad esonerare il Re, Capo di Stato, dalla responsabilità dei suoi atti ma non lo spossessa di ogni potere effettivo: rimane comunque titolare di un’autonoma competenza distinta da quella governativa, pur non perdendone la titolarità (Ghisalberti, 2006, p. 50; Perini, 2013, pp. 1-77).

I primi vent’anni di esperienza costituzionale Albertina ci raccontano solo e solamente episodi di controllo preventivo e di rapporto di fiducia tra le Camere e il Governo (la pratica costituzionale avvalorerebbe l’impostazione giuridico-costituzionale dello Statuto). La Carta contiene l’art. 47 con il quale si stabilisce il diritto di accusa in capo alla Camera (con l’art. 36 il Senato si costituisce in Alta Corte di Giustizia ed in quella veste non poteva agire come corpo politico). Questo schema formale fa pensare ad un regime di separazione, dove il Re avrebbe influenzato le Camere con la sanzione sulle leggi o con il potere di scioglimento della Camera e questa con l’accusa contro i ministri del re (responsabilità giuridica, cioè accusa e giudizio penale contro il ministro per i reati commessi nell’esercizio delle funzioni). Tuttavia, il Senato si costituì per la prima volta in Alta Corte di Giustizia sul finire dell’anno 1866 (per il processo contro l'ammiraglio Persano che era stato nomi­nato senatore l'8 ottobre 1865), cioè 18 anni dopo l’entrata in vigore dello Statuto Albertino, nel frattempo, però, tanti ministri si erano dimessi dalle funzioni anche (e non sempre) in seguito a voto di sfiducia della Camera (molti decenni prima in Inghilterra, il Parlamento, nella lenta e graduale lotta per “spossessare” il Re del potere di governo, riuscì ad ottenere che il Sovrano, grazie al principio della irresponsabilità regia, scegliesse come suoi Ministri soltanto persone che godessero della sua fiducia, esercitando l’accusa anche nei confronti di ministri che in realtà non avevano commesso nessun reato).

Solo nel 1866 nacque il primo embrione di regolamento giudiziario, formulato in 18 articoli e votato nella seduta segreta dell'Alta Corte di Giustizia del 23 ottobre 1866. Nel 1868 fu presentato un vero progetto di regolamento in 37 articoli, il quale venne discusso per circa due anni. Il 7 maggio 1870 il Senato approvò il Regolamen­to giudiziario del Senato del Regno costituito in Alta Corte di Giustizia (fu modificato trent'anni dopo, il 20 dicembre 1900). Vanno ricordati, tra i più eclatanti, il primo procedimento contro il senatore Persano del 1866, quello contro il Ministro Nunzio Nasi del 1904,15 e quello riguardante i senatori coinvolti nella gestione della Banca italiana di sconto del 1924-1926.

La Camera dei Deputati del Regno di Sardegna (e dopo del Regno d’Italia) non ricorse ordinariamente (tranne alcuni casi clamorosi e controversi, come l’atto di accusa penale della Camera dei Deputati al Ministro trapanese Nunzio Nasi) all’istituto della responsabilità giuridica nei confronti di Ministri per costringere il Re a nominare persone che avessero la fiducia del Parlamento. Le dimissioni di Ministri o di Presidenti del Consiglio si verificarono prevalentemente per mancanza di consenso o gradimento della Camera. In Inghilterra, invece, si arriva al controllo preventivo (espressione della inevitabile necessità di un rapporto di fiducia tra le Camere e il Governo) gradualmente negli anni, attraverso ripetuti comportamenti politici (o “convenzioni costituzionali”) il controllo repressivo, esercitato ex post dal Parlamento, si trasforma nel tempo in un controllo preventivo.

Le Convenzioni costituzionali sono regole che scaturiscono da accordi tra attori politici o tra soggetti istituzionali e che fondamentalmente sono espressione di rapporti di forza, di forza politica, non giuridica. Non sono regole giuridiche e non sono fonti del diritto, manca il requisito della giuridicità (regole non justiciables). Il comportamento politico, dal quale possono trarsi delle regole politiche, è privo di vincolatività, esso è valido ed applicato fino a quando non viene cambiato da quegli stessi (o successivamente anche da altri attori politici) soggetti istituzionali che lo avevano messo in atto (Rescigno, 1967, p. 16 e ss.; Rescigno, 1972; Rescigno, 1979, pp. 422-426; Zagrebelsky, 1988, pp. 1-2).16

Le regole politiche nascono da “accordi politici”, pensiamo alla fiducia del parlamento, alla scelta del Primo ministro o alla decisione di sciogliere la Camera elettiva. Per quale motivo dovremmo ravvisare in questi comportamenti politici, posti in essere da soggetti istituzionali, un atteggiamento doveroso (opinio iuris ac necessitatis) e non semplicemente un comportamento conforme a prassi? Per quale ragione il voto di fiducia al Governo, espresso dagli attori politici, frutto di laboriose trattative politiche, dovrebbe essere avvertito dagli stessi come essenzialmente “doveroso”, cioè come fonte di una regola giuridica non scritta, quindi dotata di giuridicità e soggetta al sindacato giudiziale? Le procedure di formazione del Governo e il voto di fiducia rappresentano più semplicemente il risultato di accordi, di intese, che possono coagulare intorno ad un preciso indirizzo politico ed economico o rispondere ad una determinata visione politico-istituzionale dello Stato, anche in assenza di veri e propri partiti politici (basti osservare i primi settant’anni di vita dello Statuto Albertino).

Nel consenso politico, che coagula intorno ad un progetto o indirizzo politico, non si concreta una violazione di precetti giuridicamente sanzionabili. Le regole politiche o i rapporti tra soggetti politici esprimono essenzialmente forza politica i cui accordi sono finalizzati al raggiungimento di un equilibrio politico. Il risultato del rapporto di forza politica è l’accordo politico, esso è volto ad assicurare il funzionamento degli organi costituzionali, senza il quale il sistema potrebbe trovarsi in una “impasse”. Questi comportamenti politici sono intimamente legati da una stretta relazione e interdipendenza con lo schema costituzionale; tutte le altre esperienze costituzionali (in Inghilterra, in Francia, in Belgio, in Olanda) hanno raccontato la stessa tendenza al regime parlamentare, anche se non era nominalmente organizzato dalle Carte, ma introdotto dalla prassi costituzionale, cioè dal comportamento degli attori istituzionali. Ellul sostenne che il sistema parlamentare non figurava nelle Carte del 1814 e del 1830, in esse troviamo alcuni elementi sui quali il parlamentarismo poteva essere costruito: “Ciò, infatti, si è a poco a poco verificato: il governo parlamentare è un meccanismo complesso che non è stato creato razionalmente in una sola volta in un testo, ma i cui elementi sono stati raccolti poco alla volta” (Ellul, 1976, p. 381).17

4. Dal formale ordito triadico al regime dualistico

Dal punto di vista formale lo Statuto ripartiva la sovranità su tre organi: il Re, il Senato e la Camera dei Deputati. Malgrado questo schema a tre corpi, si instaurò un regime dualistico (Mortati, 1969, p. 79; Bin e Pitruzzella, 2004, p. 122; Bobbio e Pierandrei, 1970, pp. 43-47).18 Si voleva realizzare il governo misto, cioè la partecipazione delle tre componenti (monarchica, aristocratica e democratica) alle decisioni più significative per lo Stato. Con il “governo misto”, in realtà, si tentava di evitare, da un lato, il ritorno all’assolutismo, e, dall’altro, la “supremazia” della Camera elettiva (come era avvenuto durante la rivoluzione francese). La costituzione inglese settecentesca venne imitata da altre esperienze costituzionali europee: per esempio, tutti i progetti costituzionali presentati in Francia, contemplavano la ripartizione del potere legislativo tra la monarchia, l’aristocrazia e la Camera elettiva, e contenevano la possibilità per i ministri di essere membri sia del Senato che della Camera elettiva. L’articolo 54 della Costituzione francese del 6 aprile 1814 e l’articolo 46 della carta costituzionale del 14 agosto 1830 recitavano: “I ministri possono essere membri della Camera dei pari o della Camera dei deputati. Hanno inoltre accesso nell’una o l’altra Camera, e devono essere ascoltati quando lo domandano”). Tale disposizione la troviamo nell’articolo 66 dello Statuto Albertino: “I ministri non hanno voto deliberativo nell’uno o nell’altra Camera se non quando ne sono membri. Essi vi hanno sempre l’ingresso, e debbono essere sentiti sempre che lo richieggano”.19 La norma che consente che i ministri possano essere anche parlamentari, sostiene Laquièze, pone la prima condizione del sistema parlamentare: “si la responsabilité politique des ministres est le critère déterminant du parlementarisme, elle renvoie, par sa nature même, à une participation constante des ministres et du Parlement à l’exercice des fonctions législatives et d’exécution de la loi, ainsi qu’à un contrôle étroit d’un cabinet par le Parlement” (Laquièze, 2002, p. 167).

Il Senato, formato da notabili (vescovi, nobili, alti funzionari) nominati a vita e la cui influenza sociale era in declino rispetto a quella esercitata dalla borghesia (economicamente più influente), non svolse un ruolo importante pari a quello degli altri due organi. L’equilibrio dei due organi venne superato e le modificazioni intervenute nella struttura degli organi costituzionali determinarono, non sempre in modo lineare, un sistema dualistico.

Il potere esecutivo era attribuito al Re, il quale per esercitarlo si avvaleva di propri ministri che, ai sensi dell’art. 65 dello Statuto, poteva nominare e revocare. A circa metà degli anni ’50, si consolidò un comportamento politico secondo cui il Re nominava alla carica di ministro persone che godessero della fiducia della Camera dei deputati. La sfiducia esercitata dalla Camera portava alle dimissioni dei ministri designati. Il governo del Re per restare in carica necessitava del consenso della Camera. Inoltre, anche se il Re aveva il potere di nomina e di revoca dei ministri, questo potere con il tempo si venne affievolendo. Infatti, nel momento in cui il Re nominava i ministri di suo gradimento, ed ottenuta i ministri la fiducia del Parlamento, essi godevano della doppia fiducia del Sovrano e del Parlamento, di conseguenza il Re difficilmente avrebbe potuto revocarli senza ferire l’autonomia dei rappresentanti della borghesia.20 Inoltre, come già era avvenuto in Inghilterra, con il passar del tempo la controfirma da espediente per trasferire la responsabilità del Re si trasformò in un mezzo per trasferire il potere effettivo ai ministri, i quali, essendo politicamente e giuridicamente responsabili degli atti controfirmati, pretesero di firmare gli atti regi solo quando fossero di loro gradimento. Alla fine il re finì per conservare la sola titolarità del potere di governo senza averne l’”effettivo” esercizio.

La volontà del parlamento non poteva diventare legge (il potere di “sanzione” delle leggi, le quali non entravano in vigore senza la firma del sovrano) se non con il consenso del Re. Ma il potere di “sanzione” delle leggi cadde in disuso poiché il Re, rifiutando di sanzionare le leggi, avrebbe comportato un inevitabile conflitto con la Camera dei deputati che si sarebbe potuto risolvere con lo scioglimento di quest’ultima. L’eventuale rielezione dei vecchi deputati sarebbe stata considerata come una evidente sconfessione per il re.

Nella prassi costituzionale il potere di scioglimento anticipato della Camera dei deputati, concepito inizialmente come potere regio, si trasformò, lentamente ed inevitabilmente, in potere governativo, in quanto l’arbitro dello scioglimento anticipato (rispetto al termine ordinario) diventò il governo e non più il Re (non si dimentichi che il governo divenne un organo con due punti di appoggio, il Re e il Parlamento). Il Re non svolse un ruolo puramente formale, riuscì ad esercitare importanti poteri di intromissione politica, soprattutto negli affari militari ed esteri. I poteri del Re vennero spesso utilizzati per arginare rivendicazioni sociali e per rimediare alle difficoltà di azione della Camera dei Deputati (Barbera, 2010, pp. 41-46; Barbera e Fusaro, 2010, p. 449; Arcidiacono, Carullo e Rizza, 1997, pp. 75-76). Anche in Inghilterra l’evoluzione parlamentare non si svolse senza contrasti e arresti: i Sovrani tentarono di frenare l’influenza e la preminenza del Parlamento (in particolare della Camera dei comuni) sui membri del Governo e ne approfittarono soprattutto nei periodi in cui i partiti si mostrarono in crisi.

Sono quattro i principi statutari (responsabilità politica, governo monarchico e rappresentativo, irresponsabilità regia e responsabilità dei ministri) che attribuiscono alla Carta Albertina natura contrattuale, di patto tra il Re, borghesia e nobiltà liberale i cui interessi erano rappresentati nella Camera dei Deputati. Questo accordo si realizzava nella Legge, questa era la fonte del diritto primaria. Tale criterio trova fondamento nel carattere monoclasse dello Stato liberale dell’Ottocento, dove la componente aristocratica era in declino ed i ceti meno abbienti erano esclusi. Una Costituzione rigida, cioè non modificabile dalla Legge, avrebbe potuto inibire la limitazione dei diritti fondamentali. Con legge ordinaria si potevano emanare norme restrittive della libertà, si poteva anche sospendere lo Statuto in casi di criticità, come avvenne non poche volte con la proclamazione dello “stato d’assedio” in occasione di disordini sociali provocati dalla classe sociale esclusa (fuori dallo Stato). Era quindi necessario che lo Statuto mantenesse quel formidabile strumento di controllo e di mantenimento dell’ordine pubblico: la Legge serviva a mantenere l’ordine sociale dalle eventuali minacce del popolo, ancora escluso dalla partecipazione alla vita dello Stato. Per questo motivo lo Statuto doveva essere interpretato come “Carta costituzionale” flessibile. In quel preciso momento storico, lo Statuto non poteva essere inteso come Costituzione rigida, non modificabile dalla Legge, i due soggetti istituzionali (Re e borghesia) affermavano, per garantire il loro dominio, l’onnipotenza e la supremazia della Legge.

IV. COSTITUZIONE GENETICA DELLA CARTA ALBERTINA. CONCLUSIONI

Lo Statuto Albertino inserendo l’istituto della controfirma, introduce nel sistema costituzionale la “responsabilità politica”, la controfirma ministeriale rappresenta la chiave di volta del sistema parlamentare. Gli organi costituzionali concepiti dallo Statuto non furono immaginati come corpi rigidamente separati e quindi un governo separato dalle Camere. Il disegno costituzionale albertino cristallizza formalmente, come in altre Carte Costituzionali europee, l’organo “complesso”, costituito dal re e dal parlamento, nel quale l’influenza di un potere sulla funzione dell’altro era esercitabile solo ex post, ma recepiva anche (oltre ad aver attribuito al Re il potere di sanzionare, promulgare le leggi e sciogliere la Camera dei Deputati) il controllo preventivo delle Camere e il conseguente rapporto di fiducia tra le Camere e il Governo. In questo impianto costituzionale il re assume un nuovo ruolo, la controfirma ministeriale vale ad esonerare il Re, Capo di Stato, dalla responsabilità dei suoi atti, ma non lo spossessa di ogni potere effettivo: rimane comunque titolare di un’autonoma competenza distinta da quella governativa pur non perdendone la titolarità.

Anche lo Statuto Albertino non si sottrae al percorso logico determinato dall’identità genetica che collega tra loro le Costituzioni e le esperienze costituzionali europee (Bastid, 1954). L’art. 54 della Costituzione francese del 1814 e l’art. 66 dello Statuto albertino, stabilendo che i ministri possano essere parlamentari, pone la prima condizione del sistema parlamentare. La Camera elettiva rivendicherà il diritto di iniziativa e di modificare le leggi. I deputati, eletti a suffragio censitario, inizialmente eserciteranno il controllo sul bilancio (del resto erano i rappresentanti dei maggiori contribuenti e quindi particolarmente interessati alle questioni finanziarie), successivamente sull’azione politico-amministrativa del Governo. Il controllo implica la parlamentarizzazione del sistema e si radica gradualmente sulla responsabilità ministeriale.

Il regime parlamentare nelle esperienze costituzionali continentali non nasce dal nulla nel 1814, esso fu lentamente prodotto da tutte le Costituzioni e rappresenta il genotipo di tutte le architetture costituzionali dal 1789 in poi. La costituzione genetica dimostra che tutte le Costituzioni, indipendentemente dalla loro legittimazione politica sottesa, hanno partecipato allo sviluppo ed affermazione di un assetto costituzionale conforme ai principi dell’ordinamento parlamentare. Possiamo quindi parlare di un denominatore costituzionale comune che imprime un’impronta parlamentare a tutte le Costituzioni e che le lega tra loro.

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Nota

1 Costituzione prettamente ottriata, anzi prototipo di tali costituzioni è la Carta costituzionale del 14 giugno 1814 che Luigi XVIII, ritornando sul trono di Francia, dopo la parentesi napoleonica dei 100 giorni, concede ai sudditi “par le libre exercise de notre autorité royale” (Amorth, 1951, p. 783).

2 Articolo 14: “Il Re è il Capo supremo dello Stato, comanda le forze di terra e di mare, dichiara la guerra, fa i trattati di pace, d’alleanza e di commercio, provvede alle nomine per tutti gli impieghi dell’amministrazione, e fa i regolamenti e le ordinanze necessarie per l’esecuzione delle leggi e la sicurezza dello Stato” (Saitta, 1952, p. 247).

3 La révolution de juillet eut dû n’être qu’une révolution française. Les puissances de l’europe ont trouvé le moyen d’en faire une révolution européenne. Au lieu de se borner à reconnaître le lieutenant général du royaume nommé par le roi, ce qui n’eût pas changé l’état politique de la France, ni celui de l’Europe, elles se sont empressées de reconnaître le nouveau roi des Français; c’était proprement le fair eroi sur la présentation de quelques ambitieux. Ce scandale dont leurs conseils […] n’ont pas connu toute la portée, a rallumé en France ces passions que 15 ans de restauration avaient assoupies, ébranlé la fidélité des peuples, encouragé les révolutionnaires, et porté un coup mortel à toutes les royautés (De Bonald, 1988, p. 43).

4 Si veda anche Morabito, 2006, pp. 204-205.

5 La Costituzione belga rispecchia il quadro storico nel quale è stata elaborata, caratterizzato dal superamento della dottrina del legittimismo che le grandi potenze avevano tentato di restaurare al Congresso di Vienna del 1815. Con la rivoluzionaria separazione dal regno d'Olanda, al quale il Belgio era annesso a seguito delle decisioni assunte dal Congresso di Vienna, si è affermato il principio della sovranità popolare e la richiesta, da parte del popolo con decisione autonoma, che a regnare sui belgi fosse la nuova dinastia d’origine germanica Sassonia-Coburgo. L’intenzione era quella di costituire un ordinamento monarchico e rappresentativo con un capo di Stato straniero in posizione di organo super partes. Il modello delineato con la Costituzione era quello di uno Stato accentrato con un forte potere esecutivo stabilito nella capitale. La Costituzione ha previsto, infatti, un Sovrano, capo dell’esecutivo e delle forze armate, con poteri effettivi nella nomina dei suoi ministri e competente a dirigere le relazioni internazionali e due Camere rappresentative, di cui una eletta direttamente dai cittadini (Camera dei Rappresentanti) e l’altra (Senato) parzialmente costituita con un procedimento di secondo grado.

6 Collezione Officiale degli Atti del Comitato Generale di Sicilia nell’anno 1848. Palermo: Stamperia e Libreria di Antonio Muratori, Tipografo del Ministero della Giustizia, 1848, pp. 21-23.

7 I testi originali dello Statuto di Baiona del 1808 e della Costituzione di Cadice del 1812, in Congreso de los Diputados, https://www.congreso.es/docu/constituciones/1812/Bayona_cd.pdf e https://www.congreso.es/docu/constituciones/1812/ce1812_cd.pdf.

8 L’art. 3 del Codice civile napoletano stabiliva: “E’ proibito a’ giudici di pronunziare in via di disposizione generale o di regolamento nelle cause di loro competenza”, in Codice per lo Regno delle Due Sicilie, Leggi Civili. Napoli: Stabilimento tipografico di Domenico Capasso, 1848, p.1.

9 Legge elettorale provvisoria per la prima convocazione della Camera de’ Deputati, n. 61, del 29 febbraio 1848, in Collezione delle leggi e de’ decreti Reali del Regno delle Due Sicilie, anno 1848, n. 3, p.95.

10 La Dichiarazione del 1789 afferma due grandi principi: quello della sovranità nazionale e quello della separazione dei poteri. Quando si attribuisce la titolarità della sovranità alla nazione (o al popolo) è inevitabile chiedersi come il “titolare” eserciterà il potere politico. L’unica risposta possibile è tramite rappresentanti. Una volta affermato il principio rappresentativo, individuare il titolare della sovranità nella “nazione” in quanto persona giuridica unitaria (Costituzione del 3 settembre 1791, artt. 1 e 2 del Titolo III) o nel popolo, in quanto insieme della generalità dei cittadini (Atto costituzionale del 24 giugno 1793, art. 21 e Costituzione del 5 fruttidoro anno III, art. 2), significa individuare un principio di legittimazione “dal basso” sul quale basare il fondamento del potere politico nel consenso dei soggetti governati. L’affermazione dello Stato liberale ha portato alla eliminazione dei corpi intermedi, in questo modo dal punto di vista giuridico, la società si è presentata come formata da singoli individui formalmente eguali davanti alla legge. Il rappresentante non era più espressione di “corpi” che non esistevano più, ma doveva agire nell’interesse generale. Ecco la grande trasformazione della rappresentanza. Da rappresentanza di interessi diventa rappresentanza politica, ovvero una situazione nella quale il rappresentante, adesso chiamato a perseguire gli interessi della nazione, non può essere soggetto a mandato vincolato. Questa trasformazione è avvenuta durante la rivoluzione francese. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) afferma, tra gli altri, un grande principio di organizzazione politica: quello della sovranità nazionale: “Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo o individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa” (articolo 3). Questo principio fu inserito nell’articolo 1 (Titolo III) della Costituzione del 3 settembre 1791: “La sovranità è una, indivisibile, inalienabile e imprescrittibile. Essa appartiene alla Nazione; nessuna sezione del popolo, né alcun individuo può attribuirsene l’esercizio”. Il principio della “sovranità nazionale”, fondato su una teoria per certi versi sottile è stato in realtà elaborato per raggiungere scopi molto pratici, di natura politica. Se la sovranità non appartiene al monarca, come si sosteneva nell’antico regime, e non appartiene agli individui che compongono la società viene allora trasferita alla “Nazione”, questa considerata come un soggetto distinto dai cittadini che la compongono. Viene affermato un concetto di “Nazione” come persona giuridica distinta dai singoli individui che ne fanno parte. Per comprendere appieno questa teoria non dobbiamo perdere di vista il maggiore protagonista della rivoluzione: la borghesia, che in quel momento temeva allo stesso modo i rigurgiti assolutistici come eventuali fughe in avanti da parte dei giacobini che si mostravano di idee radicali. La Nazione, in quanto entità astratta, non poteva agire direttamente, di conseguenza doveva esercitare i suoi poteri per delegazione. In questo modo si spazzano via gli istituti di democrazia diretta (oltre ad evitare il suffragio universale) e si organizza un governo rappresentativo (Grimaldi, 2023, pp. 21-24).

11 Si veda l’art. 47 della Costituzione francese del 1830 e la prima parte dell’art. 90 della Costituzione belga del 1831 che attribuiva alla Corte di Cassazione a Sezioni Riunite il giudizio sui ministri.

12 La prima parte dell’articolo è la traduzione dell’art. 18 della Costituzione francese del 1830 e dell’art. 69 della Costituzione belga del 1831, mentre la seconda parte proviene dall’art. 17 della Costituzione francese del 1830 e dall’art. 39 della Costituzione spagnola del 18 giugno 1837 (Si uno de los Cuerpos Colegisladores desechare algún proyecto de ley, o le negare el Rey la sanción, no podrá volverse a proponer un proyecto de ley sobre el mismo objeto en aquella legislatura).

13 Art. 64 della Costituzione belga del 1831: “Nessun atto del re può avere effetto se non è controsegnato da un ministro, il quale perciò solo se ne rende responsabile”.

14 Fin dal principio, i Ministri, nominati dal Re, si ritennero essi medesimi legati e condizionati al consenso delle Camere (ossia di quella dei Deputati). Col loro comportamento dettero un senso al contenuto, equivoco per difetto, dell’art. 67 … La stessa cosa era avvenuta, continuava ad avvenire, in Belgio, sotto l’impero della Costituzione del 1831, nella quale si leggeva, proprio come nel nostro Statuto, che (art. 63) i ministri del Re sono responsabili e (art. 65) il Re nomina e revoca i suoi ministri: del resto ciò era stato detto anche nelle Carte francesi del 1814 e del 1830, ma l’opinione pubblica di tale periodo aveva insistentemente sostenuto il principio della responsabilità ministeriale verso le Assemblee rappresentative e, ora, questo era ed appariva, malgrado la reticenza del testo costituzionale, realtà viva ed incontrastata e come contropartita dell’inviolabilità del sovrano. Nulla impedisce di credere che, ripetendo alla lettera le statuizioni belghe del ’31, i redattori dello Statuto sapessero, dunque, di che specie di responsabilità dovesse trattarsi, cioè della responsabilità politica dei ministri verso il parlamento (Marongiu, 2000, p. 452).

15 La richiesta di ammissibilità del ricorso, avanzata dal pubblico ministero, apre un complesso iter procedurale che si protrarrà fino alla celebrazione del processo. Il 10 giugno 1907 la Corte di cassazione, annullando le sentenze della Sezione d’accusa (8 maggio 1905) e della Corte d’assise (14 dicembre 1906), attribuisce alla Camera dei Deputati la competenza esclusiva della messa in stato d’accusa, mentre la potestà esclusiva di giudicare al Senato riunito in Alta Corte di Giustizia. La Camera dei Deputati, ricevuta la sentenza della Corte di Cassazione, nomina il 21 giugno 1907 una speciale Commissione sui provvedimenti da prendere contro l’ex ministro; il 29 giugno Nunzio Nasi e Lombardo sono rinviati a giudizio innanzi al Senato, che si costituirà in Alta Corte di Giustizia il 12 luglio 1907 (Arangio Ruiz, 1907, pp. 298-317).

16 Si vedano inoltre, Crisafulli, 1970, pp. 113-115; Merlini, 1995, p. 6.

17 L’epoca che va dal 1815 al 1830 è caratterizzata, dal punto di vista politico, da un costante conflitto tra il potere reale, fondato sul diritto ereditario, e il potere parlamentare, fondato sulla sovranità nazionale: questi due poteri erano necessariamente contraddittori e la sintesi tra le loro due conc ezioni originarie impossibile. E’per l’appunto da questo conflitto che avranno origine le regole del governo parlamentare, già praticato in Inghilterra. Le caratteristiche del governo “all’inglese” erano la diminuita importanza data alla persona del capo dello stato, ritenuta irresponsabile, e la responsabilità politica concessa ad un ministero unitario e solidale davanti alla Camera rappresentativa: il legislatore controllava dunque l’esecutivo. Ma l’esecutivo aveva la facoltà di sciogliere la Camera (Ellul, 1976, p. 381).

18 Sulla concezione dualistica della forma di governo parlamentare si vedano Redslob, 1924, pp. 8-9 e Burdeau, 1950, p. 45.

19 Statuto del Regno di Sardegna, in Aquarone, D’Addio e Negri, 1958, p. 667.

20 Lo Statuto partiva quindi dal presupposto dell’esistenza di un governo nettamente separato dal parlamento, e dal fatto che fra essi ci fosse un contatto puramente politico, escludendo in modo rigoroso qualunque interferenza che avesse rilevanza per il diritto. Ma politicamente i due organi erano dipendenti l’uno dall’altro, perché se il governo voleva svolgere una determinata attività politica doveva quanto meno spiegarne i motivi, lo sviluppo e le finalità al parlamento: in una parola, il governo aveva l’obbligo di motivare i propri atti dinanzi ai rappresentanti del popolo … il parlamento poteva correlativamente influire sul governo perché poteva esplicitamente disapprovare gli atti del governo … i ministri, quando venivano nominati, e ricevevano in tal modo la fiducia del re, si cominciarono a preoccupare di avere anche la fiducia del parlamento, chè altrimenti avrebbero visto paralizzata la loro azione politica dal parlamento, la cui maggioranza avrebbe votato contro di loro. Questo alla fine avrebbe costretto lo stesso sovrano a revocarli, al fine di non crearsi impopolarità e di non mettere a rischio tutto l’edificio dello Stato e l’indirizzo politico ad esso impresso (Barile, 1964, pp. 26-27).

Author notes

* Specialista in Diritto Amministrativo e Scienza dell’Amministrazione, Alma Mater Studiorum –. Professore di ricerca di Diritto e Storia Costituzionale, DISES, Centro di Ricerche Giuridiche e Politico-Costituzionali, sede di Ricerca di Forlì.

Additional information

Come citare : Grimaldi, A. (2023). Costituzione genetica dello Statuto Albertino. Revista Estudios Jurídicos. Segunda Época, 23, e7993. https://doi.org/10.17561/rej.n23.7993

Secciones
Revista de Estudios Jurídicos
ISSN: 1576-124X

Num. 23
Año. 2023

COSTITUZIONE GENETICA DELLO STATUTO ALBERTINO

Angelo Grimaldi
Università di Bologna,Italia
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